La riproposizione del volume di Gioacchino Volpe sulla disfatta di Caporetto e la rimonta di Vittorio Veneto, edito nel 1930, rappresenta un contributo storiograficamente importante nel panorama delle iniziative legate al centenario del conflitto ma anche una notevole operazione culturale. Edito da Rubbettino, “Da Caporetto a Vittorio Veneto”, a cura di Andrea Ungari e con un’ampia introduzione di Eugenio Di Rienzo, costituisce uno dei primi e più rilevanti tentativi di elaborare un’interpetazione organica sulla grande sconfitta. Esso attinse non solo all’esperienza diretta di ufficiale combattente dell’autore ma soprattutto ai dati raccolti dall’Ufficio Storiografico della Mobilitazione Industriale, che fra gli altri incluse, oltre a Volpe, anche Prezzolini e molti altri intellettuali. Volpe mosse dai presupposti internazionali di Caporetto: Carlo d’Asburgo cercava di accelerare la chiusura del conflitto, tanto necessaria all’Austria-Ungheria, ma le sue proposte di pace non riguardavano, l’Italia, il disprezzato “nemico ereditario”, che intendeva costringere alla resa per ribaltare le sorti della guerra. Disimpegnatisi dal fronte orientale a seguito della rivoluzione russa, i tedeschi aderirono all’operazione più per prevenire la pace separata dell’alleato che per convinzione, e anche per tutelare i loro notevoli interessi economici nella Penisola. Per Wilson, definito da Volpe “mezzo profeta, mezzo papa”, i russi, inducendo Nicola II ad abdicare, avevano dato prova della loro vocazione democratica. Essi si erano così resi degni dell’intervento americano in guerra, nonostante nella precedente campagna per il secondo mandato presidenziale l’ex docente di Princeton avesse promesso di tenere il paese fuori dalle ostilità. Era l’aprile del 1917 e nessuno dei leader dell’Intesa riteneva in quel drammatico frangente che gli Stati Uniti, tutt’altro che una potenza militare, fossero in grado di compensare l’eventuale perdita del rullo compressore russo. Si temeva piuttosto l’interruzione dei flussi finanziari con i quali gli americani da anni sostenevano lo sforzo bellico degli europei. Volpe sottolineò come in quel momento la cooperazione fra l’Italia e gli alleati fosse minima. Sonnino sventò con fermezza la subdola manovra diplomatica asburgica volta a isolare l’Italia, ma la posizione del Regno restò debole: nel 1916 Cadorna aveva proposto un’iniziativa congiunta contro l’Austria-Ungheria poi ritenuta avventata dallo stesso governo italiano. Era soprattutto nel fronte interno che per Volpe l’Italia appariva fragile, con un sentimento pubblico del tutto inadeguato allo sforzo, lungo e intenso oltre ogni previsione, che il paese stava sostenendo. La forza militare mobilitata era passata dalle trentacinque divisioni del 1915 alle settanta del 1917; le ultime leve erano state ammassate al fronte; i ranghi degli ufficiali ripopolati con i figli della piccola borghesia inadeguati a guidare la truppa. Vertice estremo della nazione in guerra era il generalissimo Cadorna, destinatario di tutti gli elogi come di tutti i biasimi, per Volpe soldato di razza ma mediocre reggitore di uomini, del tutto insensibile agli aspetti psicologici. Giova aggiungere che egli fu capace di far dimettere il ministro della Guerra, ritenendosi responsabile solo nei confronti di Vittorio Emanuele III. In questo sforzo estremo l’esercito finì per divenire “nazione selezionata”, specchio di divisioni e disfattismi. Peccato originale per Volpe fu l’essere stata trascinata l’Italia in una guerra insospettabilmente lunga da una minoranza chiassosa ed eterogenea, di fronte alla quale erano riemersi i fronti interni dell’inutile strage per i cattolici, della guerra imperialista per i socialisti, o rivoluzionaria per i conservatori. Erano tutti elementi “tossici” che propagarono quel “semplicismo” secondo il quale la pace era legata solo alla buona volontà degli statisti, come se i fiumi di sangue e gli odi nazionali di anni di guerra nulla contassero. Ad aggravare la situazione fu la debolezza del “Ministero Nazionale”, il governo Boselli. Esauritasi nel maggio 1915 la fase direttamente gestita dal re, da Salandra e da Sonnino, il parlamentarismo, eterna palude della politica italiana, era riemerso. Nel settembre 1917 la definitiva rinunzia da parte di Cadorna all’offensiva segnò il punto più basso nella collaborazione con i soci dell’Intesa, che pretesero la restituzione dei pezzi di artiglieria pesante prestati all’Italia. Per il generalissimo essi sarebbero stati indispensabili in vista dell’offensiva nemica, preannunciata da molti segnali. Volpe sottolineò con notevole perizia vari errori tattici commessi nella predisposizione della linea difensiva, soprattutto per lo scarso coordinamento fra Cadorna, Capello e Badoglio, dall’eccessiva concentrazione di forze sulla Bainsizza a quella insufficiente nella valle dell’Isonzo. Per il fante di estrazione contadina, che tutto doveva spiegarsi, osservò con fine psicologia Volpe, lo spettacolo indecente di una ritirata trasformatasi in fuga per assenza di disposizioni adeguate e di fermezza da parte degli ufficiali, equivalse alla fine della guerra. Caporetto fu subito epitaffio di un esercito che rappresentò l’ autobiografia di una nazione incompiuta. A questa eco incontrollata contribuì lo stesso Cadorna con l’inaudita dissociazione dal proprio esercito-popolo, additandone ufficialmente la viltà. Non meno sconcerto egli creò negli Stati Maggiori alleati: Foch e Robertson si chiesero se fosse ancora possibile approntare una nuova linea difensiva, mentre si ipotizzava il sacrificio di Venezia. C’era ancora un esercito italiano da soccorrere? A comandare le forze alleate non avrebbe certo potuto essere Cadorna, la cui destituzione fu attuata dal governo con calcolata lentezza, anche per mantenere quell’autonomia dagli alleati che per Sonnino era garanzia di rispetto del Patto di Londra. La difesa del Piave, là dove Diaz dichiarò di giocarsi il destino del Paese, fu tutta italiana, nonostante la propaganda francese. Volpe sottolineò come per una nazione fortemente emotiva Caporetto segnasse anche l’inizio della reazione. Il Paese si ricompattò attorno alla figura del re, fondamentale con i suoi richiami al sacro dovere della difesa così come nel sostenere la credibilità dell’Italia a Peschiera nell’incontro con gli alleati. Due mesi di durissimi combattimenti sulla linea Piave-Grappa fecero naufragare le speranze nemiche di indurre l’Italia alla resa e sembrarono cancellare l’onta di Caporetto. In un clima nazionale di rinnovamento, Nitti promosse l’Opera nazionale combattenti, Salandra la concessione del voto a tutti i militi, prescindendo dal loro grado di alfabetizzazione. Caporetto sarebbe però riemersa, a partire dal tavolo della pace: su pressioni americane, il Patto di Londra parve ai nostri alleati sacrificabile. La vittoria fu subito minore, mutilata, e anche per questo si predispone il terreno a una Caporetto interna, sociale, pietra tombale del liberalismo, che dal biennio rosso culminò nel fascismo come evidenzia Di Rienzo nell’introduzione. Nel mito negativo attinsero in molti nel dopoguerra, da Malaparte a Mussolini, consolidandosi un determinismo negativo secondo il quale dopo Custoza, Adua e Lissa, Caporetto aveva confermato il fallimento del Nation Building italiano, una perenne delegittimazione che per Carlo Morandi si sarebbe poi ulteriormente estesa all’8 settembre 1943. Questo determinismo, e la conseguente “storiografia della sconfitta”, furono confutati da Volpe con la sua analisi ampia e organica, efficace nel dimostrare come senza la resistenza sul Piave, dopo Caporetto non vi sarebbe stato Vittorio Veneto. Inoltre sul piano strettamente militare ben altra fu la rilevanza di Verdun, di Gallipoli o della disfatta austro-ungarica in Galizia, e in seguito, come sostenuto da Salvemini nelle Lezioni di Harvard, la rotta francese del 1940 sarebbe stata ben peggiore. Il lavoro di Volpe fu particolarmente apprezzato dallo storico militare Piero Pieri, mentre Prezzolini ne condivise soprattutto la denunzia della debolezza della borghesia italiana. Nonostante la sua adesione al fascismo e l’amicizia di Gentile, Volpe vide, però, ostacolate le proprie ricerche e ritardata la pubblicazione del suo volume. Il regime fascista non aveva bisogno di analisi storiche approfondite e serie, ma di miti, su tutti quello del popolo guerriero, che a Caporetto non si era smarrito, nè era stato disconosciuto da Cadorna, puntualmente riabilitato, ma piuttosto tradito dalla classe politica liberale. Fu in tal modo che il paese rimase vittima di quella sindrome della disfatta che con onestà intellettuale e capacità storiografica Gioacchino Volpe aveva cercato di confutare, per richiamare alla luce i mali profondi del paese, e con essi le responsabilità della sua classe dirigente.
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