Da Il Foglio del 5 maggio
Pubblichiamo un estratto del libro di Giulio Meotti “Muoia Israele. La brava gente cheodia gli ebrei” (Rubbettino, 12 euro, prefazione di Roger Scruton, in uscita domani).
Durante la Guerra dei sei giorni nel 1967, Giovanni Spadolini, uno dei pochi autentici amici di Israele nella politica italiana di quegli anni, scrisse che attorno al destino del popolo ebraico si stata consumando “il censimento delle coscienze”. Oggi sembra impossibile quanto accadde in quell’anno.
Dall’Italia partirono decine di volontari, ebrei e non ebrei, alla volta di Israele. Volevano prestare servizio civile per aiutare il piccolo Paese minacciato di sterminio. Le richieste e le offerte da tutta Italia giunsero ininterrotte all’ambasciata israeliana, alle comunità ebraiche, all’Agenzia Ebraica, al Keren Hayesod. Un industriale piemontese, che chiese di restare anonimo, donò un milione di lire. Arrivarono denaro, medicinali, attrezzature sanitarie, cibo. Anche il sindaco di Torino, Giuseppe Grosso, inviò la propria solidarietà.
E a Roma, donna Francesca de Gasperi, moglie del grande statista democristiano, organizzò una raccolta di sangue da inviare a Israele. Di fronte alla sinagoga di Roma non c’era alcun pudore nel ringraziare Israele e il cielo per “la liberazione di Gerusalemme” dopo venti secoli.
Il 1967 fu lo spartiacque anche nella comunità di intellettuali, politici, scrittori e giornalisti. In gioco, scriveva Spadolini, c’era “la solidarietà verso il piccolo e martoriato Paese che si difendeva in casa sua, contro la minaccia di soffocamento dell’accesso al mare”. Il filosofo francese Raymond Aron lo disse così: “Tutto ricomincia. Non la persecuzione; solo la malevolenza. Non il tempo del disprezzo; però il tempo del sospetto”. Fu da un giudizio prepolitico, di natura morale, imperioso e condizionante come tutti i giudizi che scaturiscono irresistibili dal fondo della coscienza, che nacque l’odio per Israele e per gli ebrei, e che riprese vita l’oscuro, irrazionale, primitivo appello alla loro sopraffazione. L’alba della pace per gli ebrei doveva rimanere ben al di sotto dell’orizzonte.
Fin dal 1956, intellettuali come Albert Camus, Jean-Marie Domenach e Marguerite Duras avevano chiesto che in una manifestazione per i caduti di Budapest fossero ricordati anche i soldati arabi di Suez. Fu l’inizio di un’oscena equivalenza morale che oggi domina il discorso pubblico su Israele. In Italia Elio Vittorini e Franco Fortini firmarono un manifesto di solidarietà agli insorti magiari solo a condizione che la protesta fosse estesa all’aggressione israeliana all’Egitto.
E pensare che nell’aprile del 1967 l’intellettuale usignolo della sinistra italiana, Pier Paolo Pasolini, scrisse un eccezionale saggio sulla rivista Nuovi Argomenti, diretta da Alberto Moravia. “Nel Lago di Tiberiade e sulle rive del Mar Morto ho passato ore simili soltanto a quelle del ’43 e ’44: ho capito, per mimesi, cos’è il terrore dell’essere massacrati in massa” – scriveva Pasolini. Eppure sempre nel 1967 Aldo Capitini, oggi veneratissima icona dei pacifisti italiani, sosteneva che Israele avrebbe dovuto lasciare entrare gli eserciti arabi che premevano da tutti i lati, e battere gli occupanti con la non violenza. Oggi questo sogno inconscio di veder scomparire Israele anima grandi segmenti dell’opinione pubblica internazionale. Se Israele fosse invaso, il mondo assisterebbe a un genocidio di proporzioni mostruose. Questo Paese minuscolo, otto milioni di abitanti giunti dai quattro angoli della terra a costruire una sorta di enclave illuminata in un mare islamico, è tutto un esercito, uomini e donne, giovani e anziani. E la “Yeshuv”, la comunità di Terra Santa, si trova ancora a dover sostenere la lotta più spietata. E’ la grande paura, la coscienza quasi ossessiva d’un pericolo reale alimentata dai ricordi d’un vicino e tragico passato. Israele è un piccolo popolo su un piccolo territorio, e ha quasi tutto il mondo contro di lui.
Nel 1967 Zubin Mehta, il grande direttore d’orchestra, riuscì a raggiungere Israele a bordo di un aereo della El Al, sedendo su casse zeppe di munizioni, perché voleva stare vicino a Israele in un momento in cui tutti gli artisti del mondo avevano cancellato le date israeliane. Ma ci fu anche chi, come il grande Eric Leinsdorf, senza dir niente a nessuno, mentre nel 1967 la radio riportava lo slogan egiziano invece di andare al teatro per le prove prende un taxi per l’aeroporto e torna a casa. Leinsdorf se ne andò così rapidamente che lasciò perfino lo smoking nello spogliatoio dell’Opera House di Tel Aviv. Sta ancora lì, a ricordarci l’abbandono di Israele. Da allora è diventato troppo facile dimenticarsi le ragioni dell’esistenza dello Stato d’Israele. Troppo facile dimenticarsi che gli israeliani sono ebrei, ed ebrei in pericolo. Però negli anni Settanta, gli intellettuali italiani avevano ancora il coraggio di schierarsi per Israele. Senza infingimenti, senza distinguo, senza ambiguità. Eminenti personalità della cultura, delle arti e dello spettacolo si impegnarono quell’anno, un anno dopo la fatale Guerra dello Yom Kippur, a non collaborare con l’Unesco, l’agenzia dell’Onu per la cultura e l’educazione, fino a che non avesse disconosciuto le misure d’emarginazione ai danni d’Israele.
Durante il Kippur del 1973, mentre le famiglie israeliane si trovavano al tempio o in casa, digiune e assorte in preghiera, lo Stato ebraico viene attaccato da nord e da sud e a malapena si svincola dalla tenaglia. Fu una guerra vinta con la forza della disperazione, mentre il mondo e l’Onu, e con esso l’Unesco, cingevano d’assedio il piccolo Davide. “L’Unesco è un organismo delle Nazioni Unite che ha per compito quello di difendere l’educazione, la scienza e la cultura” – si leggeva nel manifesto degli intellettuali italiani. “Quanto è avvenuto rappresenta una perversione: uno stravolgimento del suo ruolo. I sottoscritti rifiutano di collaborare a questo organismo sino a che non abbia provato nuovamente, nei riguardi di Israele, d’essere fedele ai propri fini”.
Firmarono la dichiarazione Ignazio Silone, Vittorio Zevi, Silvio Bertoldi, Valentino Bompiani, Carlo Casalegno, Arnoldo Foà, Vittorio Gassman, Franco Lucentini, Eugenio Montale, Giovanni Raboni, Leonardo Sciascia, Mario Soldati, Giorgio Strehler e Franco Zeffirelli. È impressionante leggere i nomi di quella lista di sostenitori di Israele.
Dalla Germania fece sentire la sua voce il premio Nobel, Heinrich Bòll; in Francia insorsero intellettuali di sponde opposte come Jean-Paul Sartre ed Eugène Ionesco; in Italia si trovarono sulla stessa linea il cattolico Arturo Carlo Jemolo e il laico Montale. Si potevano leggere appelli come questo: “Di fronte all’aggressione araba contro Israele e alla mortale minaccia che a venti anni dalla fine della guerra e delle persecuzioni razziali incombe sul popolo israeliano noi, anti- fascisti democratici, fedeli ai valori della libertà, della indipendenza e della giustizia, testimoniamo uniti il nostro sentimento di piena solidarietà alla Repubblica di Israele”. Venne firmato, fra gli altri, da Alessandro Galante Garrone, Nicola Adelfi, Alberto Ronchey, Norberto Bobbio, Alessandro Passerin d’Entrèves, Leone Cattani, Elena e Alda Croce (figlie del filosofo). Un appello al mondo civile perché “compia immediatamente ogni sforzo per proteggere il popolo e lo Stato d’ Israele” venne lanciato da Guido Calogero, Walter Binni, Vittorio De Sica, Alberto Lattuada, Federico Fellini.
Il clima antiebraico che oggi respiriamo in Europa gettò invece i primi semi dopo la Guerra del Libano nel 1982. Fu allora per la prima volta che nella società civile si manifestarono i segni di recrudescenza antisemita. Manifestazioni spontanee e pervase di antisemitismo presero vita nel mondo della cultura, del sindacato, delle università, dei giornali.
A Napoli il direttore d’orchestra israeliano, Daniel Oren, venne contestato da una parte del pubblico non appena apparve sul podio del Teatro San Carlo. I contestatori si avvicinarono al leggio e ostentatamente chiusero lo spartito al grido di “ebrei nazisti, ebrei assassini”. A Venezia e a Modena gli assessorati alla Cultura eliminarono Freedonia, la rassegna di cinema comico ebraico-americano che avrebbe dovuto svolgersi nelle due città. A Milano la direzione dell’hotel Michelangelo decise di annullare un ricevimento organizzato da una famiglia ebraica. Intanto, la Cgil, la più grande confederazione sindacale italiana, promosse il boicottaggio delle navi e degli aerei da e per Israele. Volevano strangolare gli ebrei, costringerli a buttarsi a mare.
E così avvenne. Per otto giorni non partirono voli di linea per Tel Aviv dagli aeroporti italiani. Furono boicottate le due navi israeliane ormeggiate nel porto di Livorno. Quando un volo della compagnia israeliana El Al atterrò a Fiumicino, i passeggeri dovettero raggiungere a piedi il terminale, percorrendo 500 metri sulle piste. cosi avevano deciso i delegati del settore movimento carico e scarico della società aeroporti di Roma. Fu allora per la prima volta che i rappresentanti dei sindacati e delle organizzazioni operaie israeliane vennero esclusi come appestati da innumerevoli iniziative internazionali della sinistra, subendo il ricatto arabo- islamico che preconizzava la distruzione dello Stato ebraico.
Fu allora, negli anni Ottanta, che il mondo della sinistra,della cultura liberale azionista e di certa stampa cattolica, a causa della propria vocazione terzomondista e sostanzialmente antagonista rispetto al sentimento filoccidentale, ha iniziato a guardare a Israele con occhi obnubilati dall’ideologia. Fu allora che giornali, personalità della politica, della cultura e del mondo sindacale hanno rappresentato per la prima volta la questione mediorientale in forme sommarie e ideologizzanti, prescindendo dai fatti, così che i palestinesi hanno finito per essere identificati con il bene e la verità, mentre gli israeliani con la menzogna e il male. Israele, piccolo Stato santuario che raccoglie profughi di tre continenti, diventa il simbolo della violenza, dell’aggressione e del colonialismo; ogni errore del suo governo è una colpa inescusabile. Il diritto e la giustizia stanno interamente dall’altra parte; la pietà umana diventa alleanza politica senza riserve; laici o cattolici, i progressisti si sentono tutti amici dei palestinesi.
Questa rappresentazione manichea non poteva non alterare stati d’animo di più o meno latente antisemitismo nell’opinione pubblica. E ne abbiamo avuto la prova in certi cortei, in certi dibattiti, in non pochi articoli di giornali e riviste.
Fu allora, in quel clima, che dalla sinagoga parigina di Copernico a quella di Vienna, dal ristorante Goldonberg di Rosiers nel quartiere ebraico di Parigi alla sinagoga di Roma, un identico filo e identici metodi legarono le azioni dei terroristi. Si inizia a sparare nel mucchio, si uccidono bambini, uomini e donne inermi, tutti ebrei: non per follia, ma seguendo uno spietato disegno, una strategia dell’odio che si sarebbe poi riversata nelle strade, nei caffè e nei ristoranti di Israele durante la Seconda intifada e con i missili di Hamas sulle città e i kibbutz nel profondo e fragile sud israeliano.
Fu allora che sui giornali italiani di destra e di sinistra si arrivò a punti giustificabili solo dall’ansia di porre fine a un senso di colpa che l’Occidente non aveva mai placato dentro di sé dopo la fine della Seconda guerra mondiale: “Israele s’inebria del vino dei forti […] Il suo futuro sarà inevitabilmente scritto con lettere di sangue” (Luigi Firpo, La Repubblica); “Israele tenta il genocidio” (il manifesto); “La soluzione finale è solo rinviata” (Giuseppe Josca, Il Corriere della sera”), “L’ebreo vede la violenza come giustificazione di Dio” (Gianni Baget Bozzo); “Lo stesso metodo, lo stesso linguaggio di cui si erano serviti i governanti nazisti per porre fine alla questione ebraica” (il Secolo XIX). In quel periodo il direttore e fondatore de la Repubblica, Eugenio Scalfari, riuscì a suggerire che si era verificata una “mutazione” del carattere del popolo ebraico, che “da vittima sacrificale si è trasformato in aguzzino, da popolo inerme è diventato Stato guerriero e conquistatore”.
Fu allora che la grande stampa italiana si schierò apertamente contro il popolo ebraico per la prima volta dopo l’Olocausto. Sull’Espresso, Antonio Gambino paragonò le Fosse Ardeatine alla politica di Israele sui palestinesi. Sul Corriere della Sera, invece, spiccarono gli articoli di Maurizio Chierici che paragonò più volte l’assedio di Beirut alla liquidazione del ghetto di Varsavia e i comandanti militari israeliani a Hans Frank, il governatore nazista della Polonia occupata.
Erano anni in cui il giornalismo in Italia poteva però anche vantare figure come quella di Carlo Casalegno, assassinato dalle Brigate Rosse anche per scritti come quelli in difesa degli ebrei e di Israele. “Israele fu lasciata pressoché sola per un’esplicita discriminazione antisemita…” – scriveva il giornalista de La Stampa riferendosi al dirottamento di un aereo israeliano con cento ostaggi a Entebbe. “Partiti di sinistra e intellettuali piansero sulla sovranità ugandese violata”.
Casalegno prese di mira gli intellettuali antisraeliani: “Nella loro passione progressista, gli avvocati del terzomondismo e delle democrazie popolari talvolta trascurano la fedina penale dei loro clienti. Per costoro, l’invasione cinese del Tibet è una misura energica per portare il socialismo in una terra feudale (ed è di buon gusto tacerne), la manomissione sovietica della Cecoslovacchia è un errore, l’occupazione israeliana di Gaza è un delitto. I terroristi croati sono criminali fascisti, forse manovrati dalla Cia, i terroristi Palestinesi (e tedeschi, venezuelani, giapponesi che li aiutano) sono patrioti spinti dalla disperazione. I massacri in Cambogiasono le sbavature d’una palingenesi rivoluzionaria, la mano pesante dei militari inglesi contro i dinamitardi dell’Ira è un’offesa all’umanità. Ai dirottatori d’aerei si chiede il passaporto: delinquenti se scappano da un paese d’oltre cortina, guerriglieri se chiedono la liberazione dei massacratori di Lod”.
Erano ancora anni in cui anche in un giornale come la Repubblica si potevano trovare firme come quella della signora di ferro delle pagine culturali, Rosellina Balbi, che nel 1982, dopo l’intervento israeliano nel Libano, condusse una polemicamolto aspra con chi, a sinistra, e anche fragli ebrei italiani, trasformò la critica a Israele in una indiscriminata ostilità per il sionismo in generale. Atteggiamento di cui Rosellina Balbi non esitava a cogliere il lato antisemita.
Fu negli anni Ottanta che emerse la parificazione perversa di Hitler e Israele e la trasformazione dello stato ebraico in una “base imperialista” con la causa araba identificata con la libertà, la giustizia e il progresso, e che è all’origine di quella spaccatura etica, prima che politica, aperta all’interno dell’intellighenzia europea sullo stato ebraico. Nel 1986 il professor Alberto Asor Rosa, critico letterario e docente all’Università La Sapienza di Roma, scrisse che “nel 1948 compare improvvisamente un nuovo Stato, creato ex abrupto (…) in seguito all’accordo tra le grandi potenze occidentali (…) sorto perun atto d’imperio (…) giustificato agli occhi dell’opinione pubblica dall’Olocausto (…) fatto mostruoso tutto interno alla cultura e alla tradizione politica dell’Occidente (…) l’Occidente risolve la questione ebraica appioppandola ad altri (…) l’Olocausto ebraico viene a rispecchiarsi nell’esodo palestinese, il campo di sterminio nel campo profughi, la soluzione finale hitleriana nel sogno militarista israeliano”.
In un libro pubblicato durante la Seconda Intifada, Asor Rosa fece scalpore scrivendo che “gli ebrei, da razza deprivata, perseguitata e decisamente diversa sono diventati una razza guerriera, persecutrice e perfettamente omologata alla parte più consapevole e spregiudicata del sistema occidentale”. E già ai tempi della Prima guerra del Golfo, Asor Rosa aveva scritto in “Fuori dall’occidente” (Einaudi) che “gli ebrei hanno avuto una patria e perduto una religione” e che questa patria (Israele) si è specializzata nella pratica “sempre più raffinata e arrogante della violenza” per mezzo della “mostruosa ma inevitabile affermazione della superiorità razziale ebraica”.
Contro il popolo ebraico riecheggiano oggi, sinistre, le frasi della propaganda nazista di settant’anni fa. Sui giornali, nelle scuole, nei libri, nelle aule universitarie e dei Parlamenti d’Europa. In Occidente si riaffaccia lo spettro di Joseph Goebbels quando diceva che la Danimarca era una minaccia per il Terzo Reich. Oggi al suo posto c’è Israele.
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