Da Avvenire del 18 luglio
Cento anni dopo lo scoppio della Prima guerra mondiale la nazione torna oggi ancora una volta sul banco degli imputati. Nella discussione sul futuro del processo di integrazione del Vecchio continente le appartenenze nazionali sono spesso considerate retaggi anacronistici, e dunque ostacoli alla nascita di un’autentica identità europea.
È però facile riconoscere alla base di un simile ragionamento un fraintendimento sostanziale. La “nazione” viene in questo caso fatta coincidere interamente con il “nazionalismo”, e cioè con un specifica ideologia politica. In diverse occasioni Pierre Manent, allievo di Raymond Aron e tra i più originali intellettuali francesi di oggi, ha messo invece in guardia contro questa equiparazione. Nel suo In difesa della nazione (2008) ha criticato la convinzione che le appartenenze consolidate da secoli di storia possano essere rapidamente superate, e che dunque l’Europa unita possa essere costruita “scavalcando” le identità nazionali.
Proprio le domande sull’assetto futuro della costruzione europea hanno però suggerito a Manent quesiti ancora più radicali, che l’hanno indotto a volgersi al passato. In Le metamorfosi della città vengono per molti versi a confluire i risultati di un’intera vita studi. Manent, tra i fondatori dell’Accademia cattolica di Francia, si interroga sulle tre forme politiche principali che l’Occidente ha conosciuto nel corso della sua storia: la città, l’impero e la Chiesa. Manent non intende però “forma” semplicemente come assetto organizzativo di cui una comunità si serve per raggiungere degli obiettivi. L’indagine dell’intellettuale francese, come osserva il curatore Giulio De Ligio, è un tentativo di comprendere le diverse risposte che l’esperienza occidentale ha fornito alla domanda «cosa è il comune?». Nella prospettiva di Manent il “comune” non è infatti un dato originario, una caratteristica che scaturisce per esempio da un’omogeneità culturale o etnica, ma corrisponde piuttosto alla produzione di un ordine all’interno del quale gli esseri umani possono condurre la loro vita. E la “forma” è proprio la cornice capace di produrre una nuova forma di vita, la vita politica. Nella polis greca, la forma politica originaria, gli uomini non trovano così soltanto uno strumento, ma scoprono soprattutto una nuova realtà nella quale possono autogovernarsi (e imparare a farlo).
Così non sorprende che lo studioso si volga soprattutto alla scienza politica degli antichi, capace di comprendere come la città sia il contesto in grado di «mettere in forma» la vita umana e di far apparire il “comune”. Al contrario, la scienza politica dei moderni concepisce il soggetto come una realtà che si costituisce senza alcun riferimento alla legge politica e religiosa. Così intende lo Stato solo come lo strumento capace di garantire la sopravvivenza e la sicurezza dell’individuo, e non più come la “forma” capace di produrre quella “cosa comune” che gli uomini sono chiamati a governare. Ma in questo stesso vizio originario si può ritrovare per Manent anche la causa dell’«atonia politica e morale» che contrassegna le società europee. Come scrive infatti nella prefazione all’edizione italiana, «l’Europa si sforza oggi di vivere senza far posto alle due leggi- repubblicana e cristiana – che facevano parte della sua composizione». E staccarsi dalla legge «tende a paralizzare l’azione, a farne deperire i motivi».
Di Damiano Palano
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