La passione di Saverio Strati per Dostoevskij, riportata nella prefazione di Walter Pedullà, fornisce una chiave di lettura preziosa per il romanzo Il selvaggio di Santa Venere riproposto da Rubbettino, che valse nel ’77 il Premio Campiello allo scrittore calabrese. In esso prevale più che il realismo l’indagine psicologica: un tratto che, insieme al lavoro attento e scrupoloso che l’autore svolge sullo stile e sul linguaggio, gli consente di superare ampiamente i limiti dei motivi autobiografici e sociali che alimentano l’afflato narrativo. Tali elementi accompagnano tutto il racconto. Non c’è una pagina, non c’è un rigo in cui non emerga un’urgenza di esprimersi, che è chiaramente determinata dal vissuto dell’autore. Ma la qualità della ricerca stilistica e la profondità dell’analisi permettono all’opera di valicare i confini della rappresentazione realistica, collocandola fra i grandi romanzi del Novecento europeo. Immaginando di vedere questo libro esposto nella vetrina di una libreria ideale – che proponga al pubblico letteratura di qualità – non sfigurerebbe di fianco a dei classici del Novecento quali Morte a credito di Céline, La cognizione del dolore di Gadda o Niente di nuovo sul fronte occidentale di Remarque.
“Mi capitava di pensare spesso a quest’episodio e alla vita militare di mio padre, mentr’ero in giro anch’io a compiere il mio obbligo di soldato, racconta mio padre”.
Questo piccolo brano racchiude i tre punti di vista del romanzo, nonché uno dei temi centrali dell’opera: quello della guerra. Parla Dominic, il più giovane della famiglia Arcadi, a cui l’autore affida il ruolo dell’io narrante. Una voce discreta e defilata, che lascia spazio anzitutto a quella del padre Leo, personaggio cruciale del libro: il selvaggio, colui che da ragazzo non seppe resistere alle sirene della ‘ndrangheta. E a quella del nonno don Mico. Due figure molto diverse, di un’umile famiglia del Sud il cui destino si intreccia con gli eventi più drammatici del Novecento, accomunate dall’esperienza tragica della guerra: il primo conflitto mondiale per il nonno; il secondo vissuto dal padre. La tecnica prevalente ed efficace è quella del discorso indiretto libero. Il lettore si trova catapultato nel flusso di pensieri dei protagonisti, e li ascolta, come se fosse anche lui un personaggio dell’opera; come se fossero in carne e ossa davanti a lui. È investito dalle passioni, dalla rabbia, dai sogni che lo travolgono con la furia e la potenza di un fiume in piena.
Leo è certamente il personaggio più complesso e tormentato. Il rovello di un delitto mafioso, di cui si rese complice da ragazzo, sovrasta tutti gli altri. Riaffiora dai recessi di una coscienza che, dopo tanti anni, non riesce a rimuoverlo. L’effetto è devastante. La repulsione verso l’esperienza della ‘ndrangheta è totale. Si manifesta nell’odio verso la figura di Santo, un personaggio che spicca fra i tanti minori: il giovane malavitoso che spinse Leo, con il suo carisma e le sue lusinghe, nel baratro dell’affiliazione criminale. Finalmente avrebbe avuto il suo riscatto. Tutti in paese gli avrebbero portato rispetto: anche i bulletti che da sempre lo perseguitavano. Ma quel paradiso in terra che gli aveva prospettato Santo si rivelò presto un inferno.
Altre ossessioni si addensano intorno ad alcuni temi ricorrenti, lungo tutto il racconto, che solo a una lettura superficiale potrebbero apparire sintomi di una ridondanza narrativa: il nonno che si angustia perché il figlio non si impegna a scuola, e dunque non potrà avere la sua rivalsa; Leo che sogna di partire soldato, per scoprire il mondo, mentre don Mico teme per la sua sorte, ricordando la tragedia della grande guerra; il rimpianto di non avere studiato e le giovanili passioni amorose; il pentirsi di aver ceduto alle sirene della ‘ndrangheta; i giovani strappati alle loro vite dalla follia della guerra. Quest’ultimo, come dicevo, è un tema centrale del romanzo. Ritorna ossessivamente nei pensieri dei due personaggi che l’hanno vissuta: “Il tema si ripete. Ogni generazione ha lo stesso terribile stupido tema… Varrebbe la pena che i poveri decidessero a non fare figli. Le guerre chi le combatterebbe più?…”. Un concetto analogo lo esprime Remarque, nel capolavoro che ho citato: la guerra dovrebbero combatterla solo i ministri e i generali. Non è l’unica analogia che si osserva in queste due letture. Ce ne sono molte altre. Fra le tante, il valore del cameratismo: quel sentimento di forte amicizia e vicinanza che nasce fra commilitoni, nell’esperienza di vita estrema che devono condividere al fronte: forse la più primitiva e selvaggia che un essere umano debba affrontare.
A ogni modo, non bisogna pretendere che uno scrittore dica delle cose che non abbia mai detto nessuno: l’importante è che le sappia dire. Nel caso di questo romanzo, il problema non si pone. Il lavoro sul linguaggio e sullo stile è evidente, si tocca con mano. Quella che qui utilizza Strati è una lingua viva, concreta, ricca di suggestioni e significati. Se non raggiunge i vertici del plurilinguismo gaddiano, senz’altro ricorda la potenza espressiva di Céline: ricorrenza di termini gergali e dialettali (non solo calabresi); invenzioni lessicali; invettive deliranti. Le descrizioni dell’ambiente e del paesaggio sono rare, per lo più si limitano a delle rapide pennellate. Ma non mancano momenti di autentica poesia: “L’alba si destò e il cielo all’orizzonte pareva una gemma che si spacca e fa vedere appena il fiore. Non tardò a svegliarsi anche il sole. Un sole scialbo, malaticcio che illuminava la terra e il mare in modo triste”. In definitiva questo libro merita, per le ragioni che ho esposto, di essere collocato nella vetrina di una libreria ideale, che proponga al pubblico le più grandi opere letterarie del Novecento.
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