Il falso sapere degli economisti smascherato nella storia dell'idea di capitale
da leonardo.it del 4 Dicembre
È curioso il fatto che uno dei pionieri italiani del trading online decida di cimentarsi su temi genuinamente economici. Tuttavia con il suo libro “La fabbrica delle illusioni” Mario Fabbri, fondatore di Directa, azienda leader tra le SIM italiane, coglie interessanti spunti di riflessione, sia di natura storica sia di più stretta attualità, dichiarando a chiare lettere che “pur se qua e là il libro illustra alcuni meccanismi economici, il suo obiettivo non è di presentare una teoria economica nuova, ma di chiarire perché quelle oggi in circolazione non funzionano ma, ciò nonostante, godono di una reputazione elevata”.
Al di là di urgenze fondazionali sempre presenti nel dibattito scientifico attuale, “La fabbrica delle illusioni” è per certo un’operazione culturale a tutto tondo che merita un plauso perché sorretta da una ricerca di spiegazioni profonde scevra da condizionamenti di sorta.
Per tale ragione, anziché porre in discussione la validità delle conclusioni di Mario Fabbri in questa sede si è preferito dar luogo a una panoramica sui contenuti del libro, proprio allo scopo di invogliarne la lettura completa.
Sin dallo strillo di copertina, l’autore fa riferimento al “falso sapere degli economisti”. Lungi infatti dall’essere vati infallibili, gli economisti continuano a godere di ampio credito e a essere considerati esperti di dottrine spesso astruse.
Mario Fabbri sceglie la via dell’idea di capitale, invero poco frequentata e quindi del tutto originale, per “smascherare” la scarsa affidabilità di molte delle dottrine economiche attuali.
Si tratta quindi di una storia dell’idea di capitale, concetto che risale al dodicesimo secolo nell’operosa città di Genova e che l’autore sviluppa con uno sguardo attento al Seicento, epoca della Compagnia delle Indie, ai mercati finanziari londinesi di inizio Settecento e al mercantilismo, per giungere sino alla comparsa degli effetti del denaro sull’economia, prodromi dell’idea di capitale di Adam Smith.
È poi nel Settecento illuminista che la crescita economica inizia di fatto a risultare apprezzabile, complice anche il ruolo decisivo dell’Inghilterra, favorita dalla sua superiorità economica e industriale. Ma è in Francia che il liberismo detta le prime teorie economiche di un certo rilievo e segnatamente con il pensiero del suo esponente di maggiore spicco, Frangois Quesnay, promotore di quella fisiocrazia secondo la quale il settore agricolo doveva rivestire il ruolo di maggiore propulsore.
E mentre l’opinione dell’epoca era focalizzata sulla fluidità della circolazione del denaro, Turgot contrappose l’idea che lo sviluppo economico fosse figlio della diffusione di capitali di profitto generati dai risparmi. Fabbri sostiene quindi come il pensiero di Turgot sia stato ripreso da Adam Smith in “La ricchezza delle nazioni”, opera volta alla promozione del liberismo e nella quale compare l’idea di capitale di un intero Paese.
E siamo alla Rivoluzione francese e alla borghesia capitalistica, arricchita vieppiù dall’espansione industriale e per la prima volta a serrato confronto con la classe operaia.
Le ricadute ideologiche sono a tutti note e non mette conto analizzarle. Qui occorre sottolineare come, da questo contrasto, l’idea di capitale uscisse in qualche misura rafforzata. È da segnalare l’intento di dar voce a un autore poco noto, Percy Ravenstone, che considera il capitale come una concezione fantastica. Nell’Ottocento, con l’avvento della dottrina neoclassica, gli economisti iniziano a far ricorso a strumenti matematici per descrivere il sistema economico. L’effetto è notevole in quanto i formalismi matematici conferiscono alle scienze economiche un prestigio che va al di là della rilevanza delle dottrine stesse. Per la prima volta si inizia a parlare di capacità di prevedere gli eventi economici.
Svolta una disamina sulle trasformazioni dell’Europa di fine Ottocento, Fabbri affronta il Novecento con l’esame delle teorie di Keynes: dai temi di occupazione, interesse e moneta, alla velocità dei consumi come causa dei cicli economici.
Questi i temi salienti affrontati da Mario Fabbri nel libro in esame. Va dato atto all’autore di aver avuto il coraggio di assumere posizioni precise, a volte anche fuori dalle righe, e di aver affrontato alcuni temi con originalità e con atteggiamento foriero di spunti di riflessione e non privo di suggestioni. A buon conto, si tratta di un lavoro serio, ben documentato e corredato in calce da due appendici, ampia bibliografia e indici di nomi e argomenti. Davvero brillante è infine l’idea delle “Divagazioni” in quarta di copertina.
di Gian Maria Fiameni
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