Gli affari dei jihadisti tra Medio Oriente, Africa ed Europa
a cura di Carlo De Stefano, Italo Saverio Trento, Elettra Santori
Dopo l’11 settembre il terrorismo di matrice islamica ha formato oggetto di pubblicazioni ed indagini di ogni tipo. L’attenzione, però, si è soffermata quasi esclusivamente sui profili storici e politici, con una particolare enfatizzazione – in molti casi – di pregiudizi e luoghi comuni che poco o nulla hanno a che fare con le reali caratteristiche del fenomeno e con le sue prospettive di evoluzione nel futuro più o meno immediato. Soprattutto nel primo decennio del secolo l’interesse degli operatori dei media (e – di riflesso – dell’opinione pubblica) si è appuntato sull’ideologia sottesa ai due movimenti più importanti della galassia del terrorismo islamico (Al Qaeda e Isis), considerata a lungo il più importante (se non l’unico) elemento propulsore. Da qui nasce probabilmente un effetto sicuramente nefasto, quello, cioè, che ha portato alla criminalizzazione dell’Islam (inteso nella sua accezione più propriamente ideologica, teologica e culturale) e del mondo islamico (considerato nella sua dimensione socio-politica).
Negli anni successivi, soprattutto dopo gli attentati compiuti in Europa ad opera di cittadini europei, l’attenzione si è spostata su una diversa dimensione del fenomeno, che non può essere rigidamente e semplicisticamente catalogato nei soliti (e conosciuti) schemi “classici” del terrorismo “classico”. Abbiamo scoperto un fenomeno, che non è limitato ad un preciso contesto sociale e territoriale e che – al di là del brand ideologico – spesso trova la sua origine in fattori scatenanti completamente diversi tra loro. Così, la radicalizzazione dei giovani europei spesso si dirige più verso il nichilismo che verso una piena e consapevole adesione ad una proposta ideologica o – persino – teologica. Ma, soprattutto, durante e dopo il conflitto iracheno-siriano (l’unica vera e propria guerra, intesa nell’accezione classica del termine, che l’Isis abbia realmente combattuto) un nuovo profilo si è svelato: l’economia ed i traffici nel mondo del terrorismo islamico.
In realtà, subito dopo gli attentati alle Torri Gemelle la storia di Osama Bin Laden e della sua famiglia allargata aveva rivelato affari e cointeressenze pericolosamente contigue al conflitto che stava contrapponendo Al Qaeda all’intero mondo occidentale, e, in particolare, agli Stati Uniti. Ma la riconquista dei territori già occupati dall’Isis nel Medio Oriente ha consentito di scoprire una realtà ben più complessa, in cui traffici ed affari non collegano il terrorismo islamico solo con i potentati economici del capitalismo occidentale, ma anche con la criminalità organizzata.
Su tali temi si segnala una nuova pubblicazione “Terrorismo, criminalità e contrabbando – Gli affari dei jihadisti tra Medio Oriente, Africa ed Europa”, edita per i tipi di Rubbettino Editore e curata da Carlo De Stefano, Elettra Santori ed Italo Saverio Trento. L’opera, che è frutto di un’intensa attività di ricerca svolta nell’ambito della Fondazione Icsa (Intelligence Culture and Strategic Analysis), si giova dei contributi di undici esperti, che, in aggiunta ai tre curatori, si dedicano ad un’analisi estremamente complessa (e – nello stesso tempo – molto interessante) che, partendo dalla ricostruzione storica del fenomeno “terrorismo islamico”, si risolve in un’indagine approfondita sull’economia e sulla gestione delle risorse finanziarie nel mondo jihadista, fino a prefigurare gli scenari futuri in tema di prevenzione e contrasto alle attività criminali dei movimenti che operano all’interno della galassia terroristica.
L’approccio metodologico all’indagine prende spunto da pratiche analoghe che hanno caratterizzato (e caratterizzano tuttora) l’analisi sulle strategie della criminalità organizzata nel mondo occidentale e – tuttavia – è inedito per quanto concerne il terrorismo islamico. Si tratta, nell’uno e nell’altro caso, del principio “follow the money”, secondo cui, seguendo a ritroso la scia dei flussi finanziari che alimentano l’economia legale ed illegale, si approda inevitabilmente alle agenzie criminali da cui partono.
La ricostruzione del percorso è estremamente complessa, anche perché il fabbisogno finanziario del solo “Califfato” ammonta a cifre rilevanti (nel 2015 era stimato in 1,8 miliardi di dollari all’anno). Ma, soprattutto, il viaggio a ritroso riserva molte sorprese. Al di là dei luoghi comuni che assegnano al terrorismo islamico la gestione di alcuni traffici illegali (migranti e droga su tutti), il saggio svela al lettore le incredibili implicazioni dei movimenti jihadisti in flussi illegali di beni ed attività che apparentemente sembrerebbero del tutto estranei all’economia jihadista. Da questo punto di vista, è assolutamente paradigmatico il traffico di opere d’arte sottratte dai terroristi ai musei ed ai monumenti presenti nei territori conquistati. Le immagini trasmesse da tutte le tv occidentali, che riproducono membri dell’Isis o di Al Qaeda impegnati a distruggere siti storici e statue, rappresentano quasi un diversivo rispetto all’intenso traffico di tesori artistici che dalle centrali terroristiche del Medio Oriente sono approdati nelle collezioni private di qualche magnate europeo, russo o nordamericano.
Ma i canali di finanziamento del terrorismo islamico non conducono soltanto ad attività criminali. In alcuni periodi, ad esempio, l’Isis – nel territorio del cosiddetto “Califfato” – ha esercitato un vero e proprio potere impositivo, mediante l’esazione di tasse a carico di agricoltori, commercianti e dei proprietari di veicoli in transito. Altra fonte era costituita dalla zakat, una tassa applicata dalle banche islamiche sui capitali depositati ed ordinariamente destinata ad organizzazioni religiose, i cui proventi non vengono registrati in bilancio, così da sottrarsi a qualsiasi tracciabilità. Infine, altri finanziamenti provenivano (e tuttora provengono) da soggetti privati residenti nei Paesi del Golfo Persico. Non è da escludere, però, che nell’immediato futuro (e forse già oggi) i gruppi terroristici possano avvalersi di forme di finanziamento derivanti dai nuovi canali finanziari. Il riferimento degli autori è alle criptovalute che, da una parte, garantiscono profitti immediati, dall’altra, consentono – ancora una volta – di aggirare qualsiasi procedura di tracciabilità. Al riguardo, nuovi canali di finanziamento sono stati attivati on line attraverso il dark web dopo che – a seguito delle attività di hackeraggio del gruppo Anonymous – molti siti web riconducibili alla jihad sono stati chiusi.
Ma ancora più interessanti sono i risultati dell’indagine sui flussi finanziari interni, quelli – cioè – mirati alla promozione e gestione delle attività delle varie organizzazioni terroristiche. Sul punto, gli autori propongono al lettore due distinti profili: l’uno riguarda il riparto delle risorse finanziarie effettuato dai gruppo di vertice; l’altro, invece, i criteri ed i metodi di gestione delle risorse utilizzati dai gruppi di base. Per quanto concerne il primo profilo, circa la metà delle risorse acquisite grazie alle attività criminali ed ai finanziamenti ricevuti attraverso altri canali è impiegata per le attività belliche; un quarto dei fondi sarebbe, invece, destinato ai “servizi sociali”, un decimo alle attività di polizia, e la rimanente parte per le azioni e gli attentati organizzati all’estero e per l’acquisto di armi.
Quanto alla gestione delle risorse erogate, sorprende leggere che i costi degli attentati organizzati in Europa sono contenuti e – soprattutto – che sono spesso sostenuti direttamente dai terroristi, che attingono ai loro stipendi e risparmi personali o al mercato dei piccoli prestiti bancari. Ma, a dispetto del titolo dell’opera, gli autori dedicano ampio spazio anche ad ulteriori profili non immediatamente connessi all’economia del terrorismo: il carcere e la radicalizzazione dei detenuti; i modelli e le pratiche di deradicalizzazione. Anche su queste problematiche vari ed interessanti sono gli spunti di approfondimento e riflessione offerti al lettore: gli indicatori di radicalizzazione; le strategie per la prevenzione della radicalizzazione; le esperienze di deradicalizzazione in Italia e in altri Paesi europei.
Il volume si chiude con un saggio di Carlo De Stefano (irpino, già sottosegretario al ministero dell’Interno, direttore centrale della Polizia di prevenzione e del Comitato di analisi strategica Antiterrorismo, ed attualmente vicepresidente della Fondazione Icsa) sugli strumenti di indagine e metodologie di contrasto al terrorismo.
In definitiva, un’opera interessante e preziosa, da leggere e consultare più volte, perché, come poche altre pubblicazioni, consente al lettore di conoscere e capire un fenomeno, quello del terrorismo islamico, che i mass media troppo spesso tendono a descrivere ed indagare superficialmente, attingendo a luoghi comuni fuorvianti.
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