L’artista calabrese illustra il capolavoro felliniano in un libro, curato da Piero Mascitti e Laura Pacelli, che vanta contributi culturali eccellenti
Nell’esperienza di cultura popolare italiana, c’è un prima e un dopo “Dolce Vita“. Uno spartiacque irruento, netto, inevitabile, quello generato dal capolavoro felliniano nella società e nel costume del nostro paese. Ad omaggiare il film al termine del suo 60mo anniversario di vita, un’iniziativa editoriale originale e unica, curata da Piero Mascitti e Laura Pacelli per i tipi dell’editore Rubettino, che coinvolge un gruppo di intellettuali e un giovane artista, Crimasso, nome d’arte di Cristian Mancuso, trentaduennne nato a Zurigo ma di origine catanzarese, che nel capoluogo calabrese vive e opera. Crimasso ha dato vita a illustrazioni che restituiscono le immagini di Anita e Marcello trasfigurate in una luce nuova, onirica e suggestiva, che porta in sé il marchio senza tempo dell’Arte con la A maiuscola. Dal cinema alla pittura il passo è breve, con immagini iconiche consegnate alla memoria dei cinefili ma anche a quell’immaginario collettivo che ha promosso la Roma a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, quella della dolce vita appunto, a paradiso terrestre. Un Eden dall’esteriorità peccaminosa, apparentemente solo lustrini e pailette, centellinato attraverso tessere di un mosaico in eterna costruzione. Una lotta costante tra demonio e santità, tra il libero desiderio e la paura cattolica del peccato, reso soffocante dalla presenza ossessiva e ingombrante del Vaticano. In questo equilibrio precario tra angeli e demoni, le astrazioni figurative restano al di sopra del tempo e dello spazio, e ci consegnano un universo figurativo scolpito nella memoria e destinato a vincere l’usura e la corruzione degli anni.
Un volume coraggioso che trova le sue naturali fondamenta nelle illustrazioni di Crimasso, folgorato dalla visione del capolavoro felliniano (“Non l’avevo mai visto prima e mi ha entusiasmato, soprattutto per lo stile così realistico e vero, una fotografia della vita romana degli anni Cinquanta con tutte le sue contraddizioni e la sua bellezza; poi quel momento magico sotto la Fontana di Trevi. Una carezza, un bacio, un attimo infinito”) e che si arricchisce dei contributi di firme prestigiose nel panorama culturale contemporaneo. Da Jurij Živago a Ghislain Mayaud, da Mimmo Calopresti a Paride Leporace, passando per Filippo Veltri, Claudio Coccoluto, Sergio Dragone, Margherita Bordino, Marcello Jori, Jean-Francois Pugliese e Giorgia Alcaro, firme che si prestano volentieri al suggestivo gioco della memoria che la pellicola felliniana suggerisce e stimola. Mascitti, citando il suo mentore Mimmo Rotella (“L’arte non ha età“) pone l’attenzione sul legame tra il “giovane” Crimasso e il “vecchio” Fellini, protagonisti non già di un dualismo generazionale ma piuttosto di un continuum celebrativo della bellezza, attraverso le vie infinite dell’arte, quell’arte che è necessità, non mestiere, è liberazione e non esibizione dell’ego. Dal canto suo, Leporace ricostruisce il tortuoso percorso che il film dovette affrontare per superare le grinfie della censura cattolica ma anche di quella a sinistra, incassando invece il sostegno immediato da parte di personalità mai allineate quali Italo Calvino e Pier Paolo Pasolini.
Sergio Dragone rivela invece la curiosa origine del nome Paparazzo che, complice il film, nel quale era stato portato da Ennio Flaiano, sceneggiatore della pellicola, portò tanta fortuna a Rino Barillari. “Ne La dolce vita ” – scrive invece Calopresti – “si oltrepassa la sottile linea rossa tra il neorealismo e il cinema della verità, anzi delle verità. Federico si avventura nelle strade del mondo della psiche, per cercare il senso della vita, per far diventare realtà un’immaginazione prolifica senza molti contorni e con tratti vaporosi, così come sono i passaggi delle nuvole in cielo, fino ad arrivare a ritrovare Federico Fellini, fino a entrare nella Fontana di Trevi dove è Marcello ma anche Anita. Ed è la sua vita ad andare in scena sempre“.
“Il cinema è il modo più diretto per entrare in competizione con Dio”, amava ripetere Fellini, “solenne come una cattedrale e allo stesso tempo semplice come una chiesa di campagna”, come amava definirlo Vincenzo Mollica, al quale il volume è affettuosamente dedicato. La visionarietà del regista riminese, oltre ad influenzare intere generazioni di cineasti italiani e internazionali, da Paolo Sorrentino a Wes Anderson, ha aiutato lo stesso spettatore a non limitarsi ma ad astrarsi dalle proprie quotidianità grazie alla fantasia. Ed è proprio il cinema di Fellini, con il suo valore catartico, a consentire allo spettatore di proiettarsi verso orizzonti di libertà assoluta, dove a farla da padrone non è la repressione dell’inconscio, ma la sua liberissima creatività. Fattore che accomuna il cinema all’arte figurativa in senso lato. E Crimasso si fa portatore di questo trait d’union, attraverso l’uso di immagini entrate ormai di diritto nel patrimonio universale della nostra storia moderna. Crimasso le capta e le plasma secondo uno stile originale e innovativo, trasformandole in icone in grado di parlare al nostro inconscio in quello che Jurij Živago nel suo intervento definisce “una strana sorta di processo di autoanalisi mnemonica interiore: quasi un mantra o una litania visiva, nella quale lo sguardo del fruitore sembra perdersi, e al contempo continuamente ritrovarsi, tra immagini che riconosce come appartenenti al proprio universo mentale e visivo, e un labirinto visivo e concettuale di cui non conosce mai in origine la fine; ma che sa che in ogni caso lo condurrà, sempre e comunque, là dove il proprio inconscio necessita fatalmente di ritrovarsi, di riconoscersi, di riannodare i propri trascorsi e il proprio vissuto interiore con quella grande epopea narrativa e psicanalitica che è la storia visiva, culturale, cinematografica della postmodernità”.
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