La Calabria: una terra inquieta (Il Quotidiano del Sud)

di Nicola Pirone, del 8 Settembre 2015

Da Il Quotidiano del Sud 6 Settembre

SAN NICOLA DA CRISSA –
Quando si tratta di Calabria, antropologicamente parlando si parla di Vito Teti, il docente Unical che tanti lavori ha dedicato alla sua terra. Ha descritto in lungo e in largo quei luoghi comunemente conosciuti e li ha esportati nel mondo. L’ultimo suo best seller è “Terra inquieta”, dove descrive la sua regione come «spaesata e lontana da se stessa». Si sofferma sulla vita giornaliera dei calabresi. La Calabria vista con occhio clinico, quella che Teti racconta, una sorta di grande incompiuta che si articola tra mobilità e precarietà che accompagna i calabresi da secoli.
«Sono segno della rovina – commenta l’antropologo sannicolese – della provvisorietà eletta a norma, di rinvii a tempi imprecisati. Le baracche come mortificazione e quasi preludio, attesa, paura di una nuova fine. Le persone si sentono sempre precarie, mai definitive nei luoghi che potrebbero abbandonare da un momento all’altro. Ma sulle catastrofi della Calabria si sono formate fortune imponenti. Le tante calamità contribuiscono a farne una terra perennemente incompiuta, in continua riparazione». Vito Teti parla anche delle calamità che hanno cambiato il volto della regione: «Acque, torrenti, alluvioni, frane anticipano e riassumono il destino della Calabria in fuga. Tutto sembra determinato dalla provvisorietà, dall’idea che nulla è durevole. Non vi è mai un progetto nuovo. È una storia antica. Si dice che le costruzioni siano lasciate incompiute, rimandando a tempi migliori, sperando che poi i figli le ultimeranno in qualche modo. Ma non è più come durante la prima emigrazione, quando gli emigrati cominciavano un piano di casa, poi partivano per fare un po” di soldi, tornavano, riprendevano la costruzione e così via, fino ad ultimarla, a volte dieci o quindici anni dopo averla iniziata. Alla fine le case pulite, finite, colorate, con il balcone e il portone, che suscitavano l’invidia e l’ironia dei signori, sorgevano come una novità in paesi di case fatiscenti e anguste e modificavano il paesaggio urbano. Non oggi. E non è così solo per le case. Guardiamo le opere pubbliche fatte di interminabili colate di cemento che non sono state mai ultimate. In Calabria se ne incontrano innumerevoli. Dighe mai terminate, fabbriche sorte con il miraggio della salvezza e ormai dismesse; letti di fiumi incustoditi dove prosperano detriti e immondizie. Montagne di sabbia scarnificate e dissanguate da ruspe impietose a cui non segue alcuna protezione dell’uomo. Baracche di lamiere e di tavole che circondano i paesi; staccionate precarie che delimitano rigorosamente terreni incolti dove l’importante è separare i propri latifondi e poco importa che poi il terreno non venga utilizzato. Le varianti chiamano varianti». Un’analisi perfetta quella di Vito Teti che rispecchia pienamente le gravi lacune che la Calabria possiede e che difficilmente vorrà risolvere. Sì perché si tratta di volontà, di cambio di mentalità di una popolazione e una classe politica che non hanno mai pensato al proprio habitat naturale: «Nella regione – prosegue Teti – tutto appare provvisorio e tutto è rinviato. Niente finisce mai in Calabria, nemmeno gli odi, nemmeno le amicizie. Le amicizie diventano odi, gli odi si trasformano in amicizie. Vi sono situazioni in cui non mantenere le promesse è una regola condivisa. I calabresi raramente sanno dire di no a un impegno, non vogliono che l’altro ci resti male. Il calabrese è ecumenico, vorrebbe stare con tutti e in tutti i posti e le promesse diventano favole. C’è anche una bellezza del poi, quasi una difficoltà a dire no perché non si vuole dispiacere l’amico».

Di Nicola Pirone

La riflessione di Alberto Gangemi
Tra antropologia, letteratura e storia

SAN NICOLA DA CRISSA – Il libro di Vito Teti “Terra inquieta” è un mix di antropologia, storie comuni che si legano al territorio. Come afferma Alberto Gangemi: «Il Sud e la Calabria non hanno mai smesso di mettersi in cammino, di praticare il viaggio. Viaggi per la terra e per il lavoro; andate e ritorni lungo le vie dei canti; pellegrinaggi, processioni e sbarchi. Una teoria di immagini movimentate: separazioni temporanee e lacerazioni permanenti; sdoppiamenti e svuotamenti. In “Terra inquieta” la storia meridionale e calabrese appaiono come un laboratorio di mobilità individuali e collettive, religiose, rituali, di fatica e di liberazione, dove anche chi resta fermo, aspettando il movimento altrui, vibra e si muove. All’incrocio tra antropologia, storia e letteratura, “Terra inquieta” traccia il percorso di un mondo che, negli ultimi due secoli, per cambiare, ha dovuto re-inventare le forme e le parole della propria mobilità, al prezzo di diventare inafferrabile agli occhi degli osservatori, e spesso difficile da raccontare oltre le apparenze e le semplificazioni. Si tratta di una geometria che è venuta formandosi nella lunga durata, ricca di pieghe e stratificazioni, e lontana dall’essere risolta». Il Sud e la Calabria, infatti, oscillano ancora pericolosamente: tra immobilismi antichi, contraddizioni, fughe e nuovi arrivi, continuano a fare i conti con la propria inquietudine. L’inquietudine di cui scrive Teti «è una passione minerale riguarda la terra e gli uomini e la relazione che si stabilisce tra loro».

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