La vita quotidiana del dirigente scolastico: uno studio etnografico
a cura di Fondazione Giovanni Agnelli
Da Panorama del 6 aprile
Alla scuola elementare di Longhena, in provincia di Bologna, genitori e insegnanti sono insorti per difendere l’intervallo lungo all’aperto: non che il preside bramasse per abolirlo, visto che si tratta di uno degli elementi di richiamo dell’istituto (126 richieste di iscrizione per 75 posti l’anno), ma i rischi erano troppi visto che non riusciva a ottenere neppure una recinzione per il parco. A L’Aquila, lo scorso anno, è andata peggio: il dirigente di una media è addirittura finito in carcere con l’accusa di aver violato le normative di sicurezza – l’edificio è parzialmente pericolante dai tempi del terremoto del 2009 – nonostante gli interventi competessero al Comune. A Lamezia il responsabile di un liceo ha aperto un punto di ascolto per genitori e ragazzi, ma in attesa dell’autorizzazione a ingaggiare una figura specializzata gli tocca abbandonare la scrivania e calarsi lui stesso, due volte alla settimana, nei panni del terapeuta.
Sembrano situazioni straordinarie, eppure non lo sono. Perché accanto ai problemi strutturali della scuola, che impattano soprattutto sulla vita di studenti e insegnanti con il loro carico di rivendicazioni, ce ne sono altri che rimangono sottotraccia perché a farsene carico sono figure meno mediatiche e forse meno amate dalla collettività: i presidi. O, come dovrebbero chiamarsi dal 1999, quando entrò in vigore il decreto Berlinguer sull’autonomia, i dirigenti scolastici. Nelle intenzioni del legislatore la nuova figura avrebbe avuto compiti da manager: programmare un’offerta didattica nuova e flessibile, gestire le risorse umane, mettere a punto il bilancio.
Nella pratica quotidiana, come sottolinea Massimo Cerulo nel suo libro Gli equilibristi (Rubbettino, 2015), non dispone degli strumenti per farlo: i poteri di scelta del corpo docente, meglio precisati dalla riforma Giannini, si limitano alla proposta e non all’assunzione. Quanto al resto, il preside 2.0 veste ogni giorno mille maschere diverse: fa l’avvocato, l’investigatore, il counsellor, il mediatore culturale, l’esperto di ingegneria strutturale, il direttore marketing, l’idraulico, il questuante. È una situazione di perenne emergenza: poiché mancano i fondi per chiamare esperti e poiché il dirigente ha comunque un carico di responsabilità di cui deve rispondere, spesso anche dal punto di vista penale, fa personalmente tutto e di tutto. «Con la conseguenza di sottrarre tempo proprio a quello che dovrebbe essere il suo compito principale, l’offerta didattica, e di non riuscire a staccare mai. Anche perché la riforma non prevede la figura del dirigente vicario e quasi un quarto di noi hanno la responsabilità su più di un istituto» puntualizza Antonio Fini, preside a La Spezia e coordinatore del movimento «Liberiamo la scuola», dal nome dell’appello che quasi mille di loro, trasversali per territorio e per appartenenza sindacale, hanno firmato e diffuso sul web.
Le scuole cambiano, ma non cambia il sistema: è questa la loro denuncia in estrema sintesi. C’è una voglia di cambiamento e di innovazione che, se non generalizzata, pare comunque piuttosto diffusa, ma cne si scontra ogni giorno con un quadro malfunzionante. Come dice ancora Fini, «le idee ci sono, ma mancano le condizioni per metterle in rampa di lancio. Il sistema è ingessato».
Per averne conferma basta mettere in fila le storie di ordinaria burocrazia che Panorama ha raccolto fra i dirigenti scolastici italiani (altre sono nei riquadri in queste pagine). Laura Biancato, in ruolo da 20 anni, gestisce un istituto comprensivo e un tecnico agrario in provincia di Vicenza. «Sono più fortunata di molti colleghi perché in un quarto d’ora riesco a passare da una reggenza all’altra» racconta. «Ma i problemi possono presentarsi comunque: la scorsa settimana per uno sciopero del personale Ata (i bidelli, ndr) ho rischiato che entrambe le scuole fossero chiuse. E in quei casi noi presidi siamo anche responsabili dell’ordine pubblico: ma come è possibile garantire contemporaneamente la sicurezza di 1.500 persone dai 6 ai 20 anni sparpagliate intorno a cinque edifici diversi e distanti?».
Quello della sicurezza è uno dei temi più frequenti: «Da noi non siamo del tutto in regola con le normative antincendio», rivela Lucia Presilla, dirigente in un istituto comprensivo (tre elementari, una secondaria e una scuola per l’infanzia) al quartiere Labaro di Roma. «Ho chiesto la risoluzione di questo e altri problemi più volte, perché la responsabilità penale è mia, ma gli interventi spetterebbero al Municipio XV, che non ha i fondi per intervenire. Un’altra volta ho ricevuto un esposto perché alcuni bambini uscendo si erano bagnati con la pioggia». Le disavventure non finiscono qui. Con molti alunni stranieri perlopiù provenienti da un vicino campo rom, Presilla avrebbe bisogno di margini d’azione più ampi, ad esempio sulla didattica: «In teoria potrei inserire un modulo di italiano aggiuntivo, ma l’incastro con le ore di lezione e quelle di docenza, che devono restare uguali per tutti, è un lavoro pazzesco». A volte la situazione è talmente surreale che finisce per esaltare l’ingegno: Valeria Mendola, preside da poco più di due anni all’istituto comprensivo Verdi, pieno centro di Palermo, ha risolto il problema della mancanza di acqua potabile staccandosi dalla cisterna della scuola che non era a norma e riallacciandosi direttamente all’acquedotto. «Non avevo scelta, avevo già ricevuto un verbale per gli infissi arrugginiti e in entrambi i casi valanghe di lettere ed email non mi avevano aiutato a uscirne. Mi sono dovuta arrangiare, come quando ho recuperato due ex lavoratori socialmente utili della Regione per occuparsi di teatro e giardino. Certo, quando mi sono laureata in pedagogia sognavo di occuparmi d’altro. E vorrei tornare a occuparmi il prima possibile di quei sogni».
di Gianluca Ferraris
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