Nato a Reggio, cresciuto a Cosoleto, l’inquieto scrittore calabrese se n’è andato a soli 46 anni. Un libro sulla sua vita si è aggiudicato lo Strega nel 2021 e oggi le sue opere tornano in libreria. Ma il mistero sulla sua personalità resta
Un uomo inquieto, contraddittorio, dal carattere ruvido, aspro, spigoloso, peculiarità tutt’altro che affabili che provavano a mettere in secondo piano, a nascondere in maniera impacciata, come un consunto separé, un animo sensibile, fragile, afflitto da una profonda infelicità, di quelle infelicità oscure, che non hanno una origine ben chiara, legate a un episodio distinto della vita, ma che accompagnano l’individuo fin dalla nascita, come un gravoso lascito generazionale, uno scotto da pagare per essere venuto al mondo.
Lo scrittore Rocco Carbone è stato questo, anche e probabilmente. Sì, perché sarebbe poco riguardoso e molto presuntuoso dare una definizione ultima a una persona che sfuggiva anche ai suoi affetti più stretti. Così complicato, così indecifrabile da restare cristallizzato, per sempre, coi tratti dell’enigma, come una di quelle tele rinascimentali di cui non si riesce a decriptare ogni particolare.
Rocco Carbone e la giovinezza a Cosoleto
Rocco Carbone nacque a Reggio Calabria nel 1962 e trascorse la sua infanzia e adolescenza a Cosoleto, paesino alle pendici dell’Aspromonte, contornato da uliveti e affacciato sulla Piana di Gioia, fra quelli più colpiti dal flagello dell’emigrazione. Negli ultimi settant’anni Cosoleto ha perso quasi duemila abitanti, la popolazione attuale del comune non supera gli ottocento residenti.
«Un posto – scrive Emanuele Trevi, scrittore e amico di Carbone, cui ha dedicato, parimenti a Pia Pera, il memoir Due vite, libro vincitore del Premio Strega nel 2021 – di gente dura, fiera, taciturna, incline a una rigorosa amarezza di veduta sulla vita e sulla morte».
Tutti connotati propri dello scrittore calabrese, che portò con sé fino al termine dei suoi giorni, come la resistenza alle lunghe camminate, propensione vista al pari di un retaggio culturale e genetico assolutamente naturale in una terra come la Calabria, in buona parte tagliata fuori da una reale rete infrastrutturale.
Gli studi e l’improvvisa morte
Figlio di madre maestra elementare e di padre a lungo sindaco di Cosoleto, Rocco Carbone al principiare degli anni Ottanta si iscrisse a Lettere a Roma, vivendo nel Collegio dei frati silvestrini, in una cameretta spoglia affacciata su una distesa compatta di tetti fra cui spiccavano le cupole del Pantheon e della Chiesa di Sant’Ivo alla Sapienza.
È nella Città Eterna che visse per gran parte della sua vita e in cui incontrò la morte, che segnò la sua ora nella notte fra il 17 e il 18 luglio 2008.
Rocco Carbone si spense improvvisamente, a 46 anni, in un incidente stradale a bordo della sua moto, su cui era fatalmente salito in quanto gli era stata rubata l’automobile qualche giorno prima. Da poco era ritornato dagli Stati Uniti d’America, dove aveva preso parte a una serie di seminari.
L’incidente avvenne in zona Ostiense, dinanzi alla statua equestre di Giorgio Castriota Scanderbeg di piazza Albania, l’eroe albanese celebrato nella natia Calabria, su una strada deserta dell’estate romana, proprio come quelle descritte nel suo romanzo Agosto, opera prima edita, dopo una contenuta, ma insopportabile per l’autore, tribolazione editoriale, nel 1993 da Theoria e adesso ripubblicata da Rubbettino.
La casa editrice con sede a Soveria Mannelli ha infatti intrapreso il progetto di rimettere in circolazione le opere di Rocco Carbone, di dar loro nuovi lettori; disegno principiato dalla ripubblicazione de L’assedio, in cui nella misteriosa città di R. – il classico mondo non determinato, generico e universale dei romanzi dello scrittore nato a Reggio – il cielo diventa di colpo giallognolo e comincia a liberare una fitta pioggia di sabbia che lascia perplessi i suoi abitanti; un romanzo distopico ma coi piedi saldi sulla realtà e che parla a noi uomini contemporanei. Il prossimo testo in cantiere è Il comando, edito la prima volta nel 1996 per i tipi di Feltrinelli.
I primi scritti
Ultimata la prima fase di studi con una tesi di laurea incentrata sull’analisi semiologica, del mito e del romanzo, nell’86 Carbone riuscì a dare alle stampe la sua prima pubblicazione: Mito/romanzo. Semiotica del mito e narratologia. Dopodiché proseguì i suoi studi di semiotica dei testi letterari, ovverosia delle leggi che orientano il romanzo, con un dottorato a Parigi concluso con una tesi sullo scrittore e letterato Alberto Savinio (al secolo Andrea de Chirico, fratello minore del pittore Giorgio de Chirico).
Rocco Carbone si avvicinò alla letteratura con dei versi presentati sulla insigne rivista Nuovi Argomenti. Oltre che su Nuovi Argomenti, scrisse per quotidiani come Repubblica, L’Unità e Il Messaggero. Negli anni pubblicò numerosi saggi fin quando, dal 1998, prese la decisione di insegnare al carcere di Rebibbia. Una esperienza intensa che si riverberò nella sua opera, un mondo letterario già caratterizzato dagli echi di maestri quali Jack London, Yasunari Kawabata (Nobel per la Letteratura nel 1968) e Patrick Leigh Fermor, ma anche Alberto Moravia, Carlo Emilio Gadda e Romano Bilenchi, autentici numi tutelari di Carbone.
La scrittura rigida di Rocco Carbone
Dai lavori di Carbone emerge una scrittura controllata, scrupolosa, testarda, uniforme e per nulla emotiva, da cui non traspare alcuna emozione; una scrittura lungi da eccessi e dall’adottare artifizi, anche mentre affronta i temi più angosciosi; fulminea e atemporale, quella del calabrese è una scrittura che valica le barriere del tempo, obiettivi che spesso non vengono neppure lontanamente presi in considerazione da tanta narrativa contemporanea.
Non rincorreva le mode Carbone; la sua prosa scarna, disadorna, tutt’altro che ampollosa e straboccante di lemmi, percorreva altre strade rispetto a quelle in voga al tempo dei suoi titoli d’esordio. E questo certosino lavoro di sottrazione ed epurazione dei suoi scritti, fece di Rocco Carbone uno scrittore pienamente novecentesco anziché esponente della letteratura del secolo seguente, entro cui pubblicò gli ultimi suoi libri: L’apparizione (2002) e Libera i miei nemici (2005). Usciranno poi postumi Per il tuo bene – testo cui stava lavorando al momento del tragico incidente – e Il padre americano.
Un’altra amicizia duratura fu quella con Edoardo Albinati, saggista, scrittore e redattore di Nuovi Argomenti al tempo della conoscenza con Carbone. L’autore de La scuola cattolica – libro vincitore dello Strega nel 2016 – sostiene che «Carbone era uno scrittore antiretorico», un artista della parola capace di portare il lettore nel discorso, nel cuore della storia raccontata, non di allontanarlo da essa innalzando una barriera.
Il male di vivere di Rocco Carbone
La scrittura di Rocco Carbone era senza dubbio indirizzata dalle sue inquietudini, dai suoi arcani demoni; le sue «furie», come le chiama Trevi.
Carbone riservava soltanto alle persone più vicine il suo lato più socievole, mostrava loro il piacere di stare in compagnia, segnale di un uomo desideroso di quella serenità che potesse attenuare la sua irreversibile cupezza, il suo carattere introverso che non veniva affatto mitigato dal successo contenuto dei suoi libri – perlomeno non conforme alle elevate ambizioni dell’autore.
«Nella storia mondiale della letteratura – scrive sempre Trevi che, nelle pagine del citato Due vite, marca invece la parziale infondatezza dello scontento editoriale dell’amico –, è difficile immaginare qualcuno che abbia preso ogni aspetto del lavoro di traverso come Rocco, dalle copertine alle vendite, dalla qualità delle recensioni ai rapporti con gli editori». Lui riusciva a essere critico verso i suoi lavori fino all’eccesso, ma non poteva soffrire che essi non venissero riconosciuti dai lettori e dalla stampa.
Rocco Carbone e le donne
Un altro ingrediente che gli risultò tossico fu la passione per le donne, che Carbone amava con tutto se stesso. Cciò lo conduceva nelle spire buie di quella primordiale possessività tanto tipica negli uomini del Sud. Contrasse matrimonio relativamente giovane con Samantha Traxler, col trascorrere delle stagioni spesso lo colsero violenti febbroni da innamoramento, ma in generale le sue relazioni non godettero mai di quella serenità che ci si augura possa portare con sé un amore.
L’irrequietezza sentimentale finiva per corrompere ogni altro aspetto delle sue giornate, già irrimediabilmente segnate da quell’infelicità cronica, quella «orrenda e inutile succhiasangue» che ne prosciugava l’esistenza. A Rocco Carbone diagnosticarono una personalità bipolare, la capacità non sana di passare con disinvoltura da una incontenibile felicità a una acuta mestizia e che appesantiva il suo male interiore, il suo profondo imbarazzo di vivere.
In pace sotto un ulivo
Un’esistenza artistica e tragica, breve e infelice, diversamente dal Francis Macomber dei racconti di Hemingway, che trovava requie soltanto nell’appartamento spartano di via Lorenzo Valla in cui viveva, a Monteverde Vecchio, quartiere romano di suggestive viuzze e scalinate e villini d’ispirazione liberty sul lato occidentale del colle del Gianicolo.
Anche il lavoro nel carcere di Rebibbia forse ne rasserenò lo spirito, rese più sostenibile quell’attesa di qualcosa che ne coronasse il lavoro letterario, tutti gli sforzi di una vita, ché, citando Cesare Pavese, «aspettare è ancora un’occupazione», ma è quando non si attende più nulla «che è terribile».
Quel riconoscimento, però, non arriverà mai. L’attesa rimase insoddisfatta sino all’ultima notte, a quello scontro fatale che archiviò come insoluto il rebus Carbone, “condannando” noi lettori a perdere per sempre la trebisonda fra le pagine della sua opera.
Sul luogo dell’incidente oggi sorge un ulivo, pianta endemica della terra natale dello scrittore, simbolo di speranza, pace, forza, amicizia e unione. Ai piedi dell’albero, in grado di resistere alle intemperie, tenace e cocciuto proprio come Rocco Carbone, si incontrano con regolarità le persone che gli hanno voluto bene.