Carlo Pellion, conte di Persano, nacque a Vercelli l’11 marzo 1806 da una famiglia nobile piemontese originaria di Castellar, nel dipartimento francese delle Alpi Marittime. Dopo la morte della madre (1807) e del padre (1817), nel 1819, ad appena tredici anni, intraprese il mestiere delle armi entrando nella Scuola di Marina di Genova. Due anni dopo divenne guardiamarina di seconda classe; nel 1823, di prima. La carriera di Persano procedette quindi in maniera piuttosto rapida: nominato sottotenente di vascello nel 1826, nel 1841 venne incaricato del comando del brigantino Eridano, in qualità di capitano di vascello. Tornato a Genova nel 1850, il conte ebbe la direzione della Scuola per ufficiali subalterni. Nello stesso anno, dal 16 luglio al 10 settembre, ottenne l’incarico di capo del Corpo dei reali equipaggi.
Poco dopo, Pellion andò incontro al primo infortunio veramente grave della sua carriera: al comando della pirofregata Governolo, fece insabbiare la nave all’uscita del porto di Genova. L’ufficiale, a seguito di questo incidente, fu deferito al consiglio di guerra, ma venne rapidamente prosciolto. Molto probabilmente giocarono a favore di Persano le amicizie altolocate di cui questi godeva presso la corte sabauda, in particolare con l’autorevole e potente protettore Massimo D’Azeglio. Il 29 luglio 1853, tuttavia, un ulteriore sinistro rischiò di compromettere definitivamente il percorso professionale del conte Pellion, che si trovava nuovamente a comandare il Governolo, questa volta avendo a bordo addirittura il re di Sardegna Vittorio Emanuele II, insieme con Eugenio di Savoia e Ferdinando di Savoia, duca di Genova. Lungo la costa orientale dell’isola della Maddalena, per abbreviare il viaggio, Persano decise di deviare dalla rotta consueta; portò così la pirofregata a incagliarsi su una secca, sicché i reali dovettero trasbordare su un’altra nave.
Deferito nuovamente al consiglio di guerra, Carlo Pellion venne dichiarato colpevole e temporaneamente retrocesso di grado. Poco dopo, però, la Corte di cassazione annullò anche questa decisione. Ma l’infortunio aveva generato un certo imbarazzo, per cui Persano dovette essere temporaneamente destinato a ricoprire il ruolo più defilato di capitano del porto di Genova.
La benevolenza degli ambienti di corte, tuttavia, non gli venne meno. Nel 1855 Cavour lo fece nominare aiutante di campo onorario del re. In occasione della guerra del 1859, poi, a Pellion fu dato il comando della pirofregata di primo rango a elica Carlo Alberto nell’alto Adriatico, dove egli rimase per pochi giorni, fino all’armistizio di Villafranca (11 luglio). Il 7 ottobre dello stesso anno venne nominato contrammiraglio; quindi, il 12 settembre del 1860, viceammiraglio.
Qualche mese prima, il 14 marzo 1860, Cavour aveva messo Persano al comando della Divisione navale attiva, appena istituita. Da quel momento, le attività di “intelligence” a lui affidate si fecero sistematiche. Fu allora che il nobile vercellese seppe dimostrare “grandi capacità operative e di progettazione”. Questa valutazione lusinghiera è espressa da Nico Perrone, in una recente pubblicazione edita da Rubbettino, “Il processo all’agente segreto di Cavour. L’ammiraglio Persano e la disfatta di Lissa”.
Secondo Perrone, Persano, piuttosto che un comandante destinato alle azioni di guerra, fu in effetti un eccezionale capo dei servizi segreti dello stato sardo, come ve n’erano nelle potenti marine straniere. In tale veste, suo merito non secondario fu quello di aver gestito con sagacia i rapporti con Garibaldi durante la convulsa fase della conquista del Regno delle Due Sicilie, mantenendo con il generale rapporti cordiali, senza però rinunciare a contenerne il ruolo.
Fu sempre Carlo Pellion a maneggiare il denaro a lui affidato da Cavour per finanziare la conquista del Mezzogiorno, e soprattutto per “comprare” gli Alti comandi borbonici convincendoli a passare sotto la bandiera sabauda. L’opera di reclutamento svolta da Persano fu rapida ed efficace. Nel corso dell’azione di intelligence, ovviamente supervisionata da Cavour, egli infatti coinvolse il plenipotenziario sardo a Napoli, Salvatore Pes di Villamarina, servendosi di lui per far entrare segretamente le armi e le risorse economiche destinate ai ribelli nella capitale del Regno delle Due Sicilie. Qui Persano – ricorda Perrone – ebbe anche il comando di una flottiglia del Regno di Sardegna, inviata nel 1860 a pattugliare il golfo, in previsione di un’azione militare della quale non vi fu però bisogno. Lo stato borbonico, infatti, crollò più rapidamente del previsto. L’atto finale fu la resa di Gaeta, nel febbraio del 1861, al termine dell’assedio cui Carlo Pellion partecipò al comando di dieci unità da guerra.
Il ciclo di eventi che aveva portato all’unità d’Italia segnò certamente l’apogeo della fama di Persano: fu eletto deputato nel nuovo parlamento italiano per il collegio di Spezia nella VII e VIII legislatura; Urbano Rattazzi lo volle in qualità di ministro della Marina nel primo governo da lui presieduto (3 marzo-8 dicembre 1862). Promosso ammiraglio il 1 dicembre 1862, sempre dal Rattazzi, l’8 ottobre 1865 venne nominato, infine, senatore del Regno.
Scoppiata la guerra contro l’Austria, apparve quindi naturale affidare proprio a Carlo Pellion il comando in capo della flotta che il 25 giugno del 1866 prese stanza ad Ancona, dopo che il giorno prima le forze italiane di terra erano state sconfitte a Custoza dalle truppe imperiali. Persano, realisticamente, comunicò che la flotta era impreparata al conflitto e che sarebbe stato necessario attendere alcuni mesi perché potesse impegnarsi con fondate prospettive di successo. Ma la necessità di una vittoria navale – spasmodicamente avvertita dal governo presieduto da Bettino Ricasoli, nonché da una parte dell’opinione pubblica – indusse il ministro della Marina Agostino Depretis a ordinare formalmente a Persano, pena la sua sostituzione, di dare battaglia contro le venticinque unità austriache guidate dall’ammiraglio Wilhelm von Tegetthoff.
La mattina del 20 luglio 1866, al largo della base navale dell’isola di Lissa, ebbe finalmente luogo lo scontro. L’ammiraglio Pellion commise indubbiamente degli errori, come quello di disorientare il comando della sua flotta trasferendosi dalla nave ammiraglia, la corazzata, Re d’Italia, all’avviso a ruote Affondatore senza inalberare su quest’ultimo convoglio le insegne di ammiraglio. Così pure, Perrone ricorda che la squadra italiana non si dispose nella normale formazione di combattimento, “ma alquanto sparpagliata e soprattutto presentando ampi varchi fra alcune navi”; il che permise a Tegetthoff di infiltrarsi all’interno degli ampi varchi lasciati aperti dalle imbarcazioni avversarie.
Alla fine della battaglia l’Austria contò trentotto caduti e centotrentotto feriti. Le perdite italiane ammontarono, invece, a seicentoquaranta uomini; vennero inoltre affondate le corazzate Re d’Italia e Palestro.
Dopo un primo iniziale momento di incertezza sull’esito effettivo dello scontro, la disfatta italiana si rivelò in tutta la sua gravità. Essa, oltre a errori strategici, doveva imputarsi alla scarsa compattezza della flotta, formata da uomini provenienti da regioni con storie e tradizioni militari assai eterogenee e minata da rivalità e disaccordi negli alti comandi.
I drammatici fatti di Lissa avrebbero dovuto indurre le autorità del neonato Regno sabaudo a una seria riflessione sulla portata delle ambizioni dell’Italia quale “Potenza” marittima e sulla tenuta delle sue forze armate. Invece si scelse di ricorrere a un metodo che Perrone individua come una caratteristica di lunga durata nella nostra storia nazionale, ovvero la ricerca del capro espiatorio: nella fattispecie, per l’appunto, l’ammiraglio Carlo Pellion.
Persano fu processato dal Senato, costituitosi in Alta corte di giustizia, rischiando addirittura l’incriminazione per alto tradimento e la conseguente pena capitale. Nell’aprile del 1867 venne riconosciuto colpevole e condannato alle dimissioni e alla perdita del grado. Fu privato della croce dell’Ordine militare di Savoia e della connessa pensione, mentre un decreto della Corte dei conti gli tolse perfino la pensione della Marina, tanto che l’ex ammiraglio poté sostenere le conseguenti ristrettezze economiche solo grazie al patrimonio della moglie inglese Fanny Bacon. Morì dimenticato da tutti a Torino, il 28 luglio 1883.
Pagò, più che le colpe personali, l’incauta decisione, certo non sua, di entrare in guerra senza adeguata preparazione, nonché gli errori fatali di una classe dirigente che, scrive Perrone, “aveva dimostrato fin dal principio di non essere all’altezza di una situazione […] assai complicata dal punto di vista politico, diplomatico e militare”. E più complessa, aggiungiamo noi, per quel che riguardava la formazione del nuovo organismo unitario come dimostrò la guerriglia filo-borbonica che sconvolse le provincie meridionali (Sicilia, inclusa) dal 1860 al 1870.
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