Verso un'economia umana
a cura di Dario Antiseri e Flavio Felice
Da Il Foglio del 22 gennaio
Cinquant’anni fa moriva l’economista tedesco Wilhelm Rópke (10 ottobre 1899-12 febbraio 1966), esponente di spicco di quell’umanesimo liberale cristiano che ha contribuito all’elaborazione della cosiddetta economia sociale di mercato, all’indomani della tragedia della Seconda guerra mondiale. In realtà, già la Grande guerra aveva indirizzato i suoi studi verso una considerazione integrata dell’economia e dei fenomeni sociopolitici, convinto che il rigetto della guerra e del nazionalismo dovesse portare gli studiosi di economia politica a rigettare l’ordine conservatore e imperialista del tempo, verso una presa di posizione liberale e liberoscambista. Dopo aver riscosso un discreto successo con la pubblicazione di “Kredit und Konjunktur” (1932), nel 1933, all’ascesa di Hitler, lascia la Germania per insegnare Economia all’Università di Istanbul. Nel 1936 pubblica in inglese il volume “Crises and Cycles”, seguito l’anno dopo da “Die Lehre von der Wirtschaft”. Sempre nel 1937 si trasferisce a Ginevra per dirigere l’Institut des Haute Etudes Internationales. Qui incontra intellettuali del calibro di Ludwig von Mises, Hans Kelsen, Guglielmo Ferrero e Luigi Einaudi. Sono di questi anni capolavori come “La crisi sociale del nostro tempo” (1942), “Civitas humana. I problemi fondamentali di una riforma sociale ed economica” (1944) e “L’ordine internazionale” (1945). Nel 1947 insieme a Ludwig von Mises e a Friedrich August von Hayek dà vita alla Mont Pélerin Society, un’associazione internazionale di scienziati sociali liberali della quale nel 1961 assunse la presidenza. Nel 1958 pubblica il libro forse più noto, da molti considerato il suo testamento spirituale: “Al di là dell’offerta e della domanda” (Rubbettino).
Vi sono almeno tre motivi di interesse nell’opera di Rópke. La sua prospettiva antropologica: “Modellata sul retaggio spirituale della tradizione antica e cristiana” fino a considerare “orribile peccato degradare l’uomo a semplice strumento”. In secondo luogo, il considerare il mirabile meccanismo dell’offerta e della domanda allo stesso tempo come presupposto e come limite del mercato. Infine la funzione sociale della concorrenza, impedendo le concentrazioni di potere economico e “ottenendo che si svolga lealmente”. Tutti questi punti fermi possono trovare una rinnovata considerazione oggi che la ricerca di un nuovo ordine sociale è nell’agenda di Papa Francesco, come dimostrato anche nel suo ultimo intervento al World economie forum di Davos, per rafforzare la capacità inclusiva delle istituzioni politiche e la stessa cultura degli operatori di mercato. In altre parole, Rópke ci fornisce strumenti utili per superare l’impasse del “paradigma tecnocratico” e del “consumismo”, denunciati da ultimo nella “Laudato si”. Ad esempio, l’idea di concorrenza come processo di scoperta e di mutua collaborazione (cum-petere) può minare quel vecchio neoliberalismo keynesiano, interventista e dirigista che, oltre a porre l’accento sul consumo come motore dell’economia, continua ad ignorare, in nome dello stato (ri)accentratore, la realtà in continuo movimento del mercato nella sua pluralità (prezzi, salari, interessi, ecc.), sostituendola con “una specie di ingegneria economica, sempre più infiorata da equazioni matematiche”. Allo stesso modo, si consideri anche la condanna del Papa al “consumismo”, già denunciato come estraneo all’ “economia libera” descritta da Giovanni Paolo II nel paragrafo 42 della “Centesimus annus”. Insomma, dal combinato disposto tra l’opera di Rópke e il magistero sociale di Francesco, comprendiamo che l’inclusione sociale può avvenire solo sul terreno del riconoscimento a partecipare al momento strategico, a quello decisionale e a quello operativo, momenti distinti ma convergenti che fanno di un aggregato sociale una società civile solidale, poliarchica e sussidiaria. Per questa ragione, Rópke ci insegna quanto sia necessario operare quotidianamente per liberare i poveri dalle “catene della povertà”, ossia da quella selva di impedimenti di natura giuridica, politica, economica e culturale che costringe una parte della società (la maggioranza) a essere relegata ai margini del contesto civile e finire per giocare un ruolo tanto residuale e umiliante, quanto essenziale al funzionamento di un sistema estrattivo ed escludente: quello dei clientes che giocano il ruolo di elettori occasionali e imperterriti consumatori.
Dunque, in questa prospettiva, inclusione sociale significa non ammettere alcuna pretesa rendita monopolistica, su alcuna fonte di reddito e operare affinché nessuna pretesa rendita possa trovare una qualsiasi soddisfazione. Inclusione sociale significa educare alla cultura della condivisione e predisporre, a cominciare dal ricorso alle norme di rango costituzionale, un rigoroso sistema istituzionale che impedisca e punisca i tanti o i pochi percettori di rendite di monopolio, che si tratti di rendite politiche, economiche o culturali.
di Flavio Felice
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