Da Le Cronache del Garantista del 27 marzo
Nell’introduzione a L’ombra della tirannide. Il male endemico della politica in Hayek e Strauss, uscito da poco per l’editore Rubbettino (pagine 326, euro 24), Raimondo Cubeddu illustra i motivi che lo hanno spinto ad occuparsi in un unico testo di due autori che, pur avendo «ancora molto da insegnare», muovono tuttavia «da posizioni diverse e talora inconciliabili». Il fatto è che, secondo l’autore del libro, «le loro critiche mostrano meglio di altre come mai il fascino esercitato dallo Scientism e dallo Historicism sia qualcosa di cui la filosofia in generale, e la filosofia politica in particolare, non riescono a liberarsi facilmente, e soprattutto come mai quello della tirannide, nonostante le tragiche esperienze, sia sempre un pericolo attuale». Ora, il primo aspetto che va considerato è che Friedrich von Hayek (1899-1992) e Leo Strauss (1899-1973) maturarono le loro critiche e scrissero le loro opere più importanti nel periodo immediatamente seguente al secondo conflitto mondiale, o quando esso ancora era in corso. Volevano capire il costrutto mentale che stava dietro a nazismo, fascismo e comunismo. In modo da poterlo smontare e anche, nella misura del possibile, sostituirvene un altro più confacente ai valori e ai principi della civiltà umana. Se Collingwood, sulla scia di altri autori, in primo luogo direi Benedetto Croce, aveva individuato in una generale mancanza di religiosità, e quindi in una diffusa indifferenza morale, il tratto caratteristico che aveva portato la società liberale europea nelle braccia del nazifascismo, Strauss e Hayek posero invece attenzione alla particolare elaborazione intellettuale, potremmo dire alla logica, che animava e sorreggeva i regimi totalitari. Tutto partiva, in qualche modo, dall’idea moderna di dominare titanicamente il mondo umano sulla falsariga di quanto avvenuto, tramite la scienza-tecnica, con il mondo della natura (Positivism o Scientism). Un progetto in lato senso illuministico, ma che può essere fatto iniziare con le opere di Francesco Bacone a cavallo fra Cinque e Seicento. Una volta comprese dal lato teorico le leggi che sorreggono l’agire umano, e lo sviluppo stesso della storia (Historicism), la stessa prassi politica avrebbe provveduto dal lato pratico a realizzare i suoi fini applicando in maniera rigorosa quelle leggi in modo da non potersi aspettare sorprese o esiti non voluti. Il politico animato da propositi morali e di giustizia, attraverso lo studio della società, considerata come un tutto («olismo»), avrebbe potuto successivamente agire su quel tutto plasmandolo nel modo voluto e realizzando una condizione di pace e giustizia («ingegneria sociale»). Non solo, lo stesso uomo, immesso in una rete di relazioni sociali diverse e non distorte, si sarebbe trasformato o avrebbe riconquistato quella sua essenza di profonda semplicità o bontà che la civiltà aveva deviato (Rousseau) o capovolto (Marx). I totalitarismi si vissero,in quest’ottica, come un processo rivoluzionario in atto teso a creare proprio quest’Uomo Nuovo. In essi, l’intellettuale, l’uomo di cultura, o anche lo scienziato, era per lo più visto come colui che avrebbe aiutato a capire sempre meglio in vista dell’azione la società in cui viviamo. Era un processo intellettuale che avrebbe perciò giustificato la Rivoluzione, in un orizzonte di senso perfettamente integrato, non opposto, a quello in cui la stessa democrazia moderna si era affermata. Cubeddu insiste, a ragione, molto su questo aspetto. Sul fatto, ad esempio, che per Hayek, con cui egli simpatizza, i teorici della democrazia, da Kelsen fino ai liberai odierni, hanno a torto creduto nella possibilità di affidare alla politica il compito di opporsi alla tirannide. Al contrario, democrazia e tirannide hanno una radice comune in quella «fallacia costruttivistica» che è la convinzione di poter accelerare politicamente i processi storici in vista della creazione di uno «Stato universale e omogeneo» (Hayek arriva ad affermare che le teorie di Kelsen hanno contribuito a spalancare «le porte alla vittoria della fascista e bolscevica volontà dello Stato»). In questo modo si dimentica la limitatezza e finitezza dell’essere umano: la presenza endemica in esso (nel senso che è dialetticamente costitutiva del suo essere) del male e la sua impossibilità di sapere ogni cosa a causa della dispersione della conoscenza umana.
La complessiva concezione qui tratteggiata fu molto diffusa fra i teorici della politica chiamati a confrontarsi con le conseguenze nefaste della politica novecentesca. La critica allo storicismo fu, ad esempio impostata, da Karl Raimund Popper, in una lunga disamina storica (Platone, Hegel, Marx) nei due volumi La miseria dello storicismo, che uscirono fra il ’44 e ’45. Ma si può dire che essa fosse già stata ampiamente acquisita, ad esempio in ambito italiano attraverso la teoria della filosofia come “metodologia della storiografia” di Croce. Ovviamente, bisogna fare attenzione all’uso dei termini: è vero che il filosofo napoletano definì la sua prospettiva «storicismo assoluto», ma il termine in lui assumeva non solo un significato diverso ma anzi specularmente opposto a quello che gli dava Popper. Lo storicismo che Popper criticava era nulla più che la crociana «filosofia della storia», da Croce giudicata il vizio di fondo della concezione hegeliana: già in un saggio del 1895 egli scriveva che la storia non ha altri fini che quelli determinati dalla libertà e imprevedibilità delle azioni umane. Pertanto per spiegarla, i i concetti metafisici e teologici (Ragione, Progresso, Idea…), anche nella loro versione laica e secolarizzata, vanno rigorosamente banditi. Sarà Karl Loewith a ricostruire storicamente il percorso, in un importante libro del 1949, ripubblicato proprio in questi giorni da Il saggiatore: Significato e fine della storia (pagine 270, euro 13), i percorsi attraverso i quali la concezione teologica della storia era passata dal cristianesimo, attraverso l’illuminismo alle moderne teologie politiche e dei regimi totalitari. Lo stesso Croce avrebbe poi criticato ampiamente la pretesa di elaborare una «filosofia pratica» che sia qualcosa di più che una «filosofia della pratica»: è cioè giusto, per lui, ragionare sulle faccende pratiche ma non ci si può porre nell’ottica di chi vuole elaborare una teoria della «verità» da «adeguare» col pensiero e da «applicare» poi con l’azione. La critica che compirà Michael Oakeshott alla «filosofia politica» seguirà la stessa linea del ragionamento crociano. In definitiva, ciò che questi pensatori hanno in comune è una diffidenza per la politica, ma meglio sarebbe dire per la politica ideologica, e una passione per quello che considerano il valore ultimo: la libertà individuale o umana.
di Corrado Ocone
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