Da Corriere.it
Su quel passaggio epocale il «Corriere della Sera» offre ai suoi lettori uno strumento di conoscenza e riflessione: il volume a più voci 24 maggio 1915. L’Italia è in guerra, che non vuole essere una pubblicazione celebrativa, ma inserirsi nel dibattito che il centenario del conflitto sta suscitando. I contributi di Sergio Romano ed Ernesto Galli della Loggia analizzano le ripercussioni dello scontro bellico. Simona Colarizi, ricostruisce i passaggi che condussero all’intervento. Giovanni Belardelli e Franco Cardini si domandano che cosa sarebbe avvenuto se la scelta dell’Italia fosse stata diversa. Il volume comprende inoltre scritti sul ruolo del «Corriere» albertiniano, sul fallimento dei socialisti, sulla cultura interventista, sulla posizione del Vaticano, sul punto di vista austroungarico.
Numerosi sono tuttora gli interrogativi aperti sugli eventi del 1915. Perché oggi non può non apparirci strano che l’Italia abbia compiuto quel passo quando già era evidente, dopo dieci mesi di ostilità nel resto d’Europa, che si trattava di una guerra incerta, cruenta, costosissima in ogni senso, destinata a durare e a lasciare i contendenti stremati. Tanto più che la maggioranza del Parlamento, legata al leader liberale neutralista Giovanni Giolitti, avrebbe preferito senz’altro la pace, così come contrario al conflitto era il partito di sinistra più numeroso e organizzato, quello socialista, mentre assai recalcitranti si mostravano le masse legate alla Chiesa cattolica.
«Salandra e Sonnino erano convinti che entrare in guerra fosse l’unica via per fare dell’Italia una grande potenza di livello europeo. E non si resero conto che rivendicare anche territori abitati da slavi e tedeschi avrebbe indebolito la nostra posizione diplomatica, nel momento in cui gli altri Stati dell’Intesa si presentavano, sia pure con qualche ipocrisia, come difensori dei popoli oppressi », osserva lo storico Antonio Varsori, che a quei fatti ha appena dedicato il libro Radioso maggio (Il Mulino, pp. 215, e 12). E poi c’era un rilevante aspetto di politica interna: «Attraverso la guerra Salandra voleva anche mutare gli equilibri parlamentari: imporre una svolta conservatrice per farla finita con l’esperimento di apertura a socialisti e cattolici avviato da Giolitti».
Ma come mai la manovra riuscì, mettendo in scacco avversari che sulla carta erano preponderanti a Montecitorio e nel Paese? Un altro studioso, Fulvio Cammarano, ha approfondito il comportamento delle forze neutraliste nel saggio Abbasso la guerra! (Le Monnier, pp. 605, e 29). E segnala al «Corriere» la debolezza di fondo dell’eterogeneo schieramento che invocava la pace: «Le sue tre componenti, liberali giolittiani, Psi e Chiesa cattolica, sono assai distanti sotto il profilo ideologico e si rifiutano pervicacemente di collaborare per lo scopo comune. A tutti loro l’obiettivo di tenere l’Italia fuori dalla guerra appare secondario rispetto alla difesa della propria identità. E infatti, per esempio, non appena un esponente socialista cerca di dialogare con i cattolici, subito qualcuno lo impallina sulla stampa del suo partito».
Per giunta in quel mondo si registrano importanti defezioni, come illustra lo storico Mario Isnenghi nel suo nuovo libro Convertirsi alla guerra (Donzelli, pp. 282, e 20). All’estrema sinistra Benito Mussolini è solo il caso più noto di adesione all’interventismo, cui si aggiungono altre figure di rilievo come Cesare Battisti, Alceste De Ambris, Maria Rygier. Mentre al fianco del comandante supremo Luigi Cadorna, un credente che riporta i cappellani nell’esercito, troviamo due frati cattolici della statura di Giovanni Semeria e Agostino Gemelli.
Anche l’interventismo per la verità è composito, spiega Cammarano, ma ha un asso nella manica: «Si presenta come il partito del futuro, che intende costruire un’Italia grande e rigenerata, come potenza imperiale per alcuni, come democrazia moderna per altri. Invece il neutralismo, che non vuole rischiare l’azzardo della guerra, offre di sé un’immagine timida e sbiadita, quella di chi si accontenta di proseguire nella cauta gestione dell’esistente perseguita da quel Giolitti che era considerato da molti un vero e proprio corruttore della vita pubblica».
Proprio su questo tema focalizza la sua analisi un altro studioso, Luigi Compagna, nel libro Italia 1915: in guerra contro Giolitti (Rubbettino, pagine 192, e 12), che denuncia come gli interventisti liberali e democratici, sordi ai moniti del neutralista Benedetto Croce, abbiano allora ceduto alle pericolose sirene dell’antiparlamentarismo pur di raggiungere i loro scopi. «Salandra — ricorda Varsori — si dimostrò abile: dopo aver concluso il patto di Londra per l’entrata in guerra dalla parte dell’Intesa, si dimise da capo del governo per dimostrare che Giolitti non aveva la forza per subentrargli e rovesciare la sua politica. Così lo mise fuori gioco. Lo favorirono la scarsa credibilità delle offerte territoriali austriache, che Vienna pretendeva di mettere in esecuzione solo dopo la fine della guerra, ma anche i moti della piazza interventista, che a Roma trovò un leader dal carisma formidabile come Gabriele D’Annunzio».
Eppure, sottolinea Cammarano, c’era anche una piazza neutralista: «Dalle ricerche che ho compiuto risulta che i manifestanti contrari alla guerra, prima delle giornate più roventi di maggio, erano maggioritari, specie là dove non c’era una presenza rilevante degli studenti universitari, punta di lancia dell’interventismo. Contro la guerra si manifesta, nel Nord come nel Sud, anche una resistenza prepolitica, generata dai bisogni immediati delle classi popolari, che non vogliono essere mandate a morire in battaglia. Ma l’iniziativa era in mano ai fautori della guerra e i loro avversari sono passati alla storia come una sorta di sparring partner».
Il modo in cui una minoranza attiva prese il sopravvento ha indotto qualcuno a dipingere il maggio 1915 come una sorta di «colpo di Stato», definizione che Varsori trova eccessiva: «Tutto avvenne a norma dello Statuto. Il re svolse regolari consultazioni, constatò che nessuno si faceva avanti per sostituire Salandra e lo rimandò alle Camere, dove il capo del governo ottenne una larghissima maggioranza sulla mozione che apriva la strada alla guerra. Ma in realtà Vittorio Emanuele III si comportò in modo molto ambiguo: con i messaggi inviati in quei giorni al re d’Inghilterra e allo zar, aveva di fatto avallato il patto di Londra. E i disordini di piazza furono gravi, gli studenti interventisti cercarono persino d’invadere Montecitorio e ne infransero le vetrate. Le forme costituzionali vennero rispettate, ma si verificò una forzatura che indebolì le istituzioni rappresentative».
di Antonio Carioti
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