Sandro Abruzzese è nato in Irpinia e vive a Ferrara dove insegna materie letterarie in un istituto d’Istruzione Superiore. Per i tipi di Manifestolibri ha pubblicato Mezzogiorno padano (2015). Sul suo blog, raccontiviandanti, si occupa di viaggio e sradicamento. Il suo secondo libro, CasaperCasa, è uscito nel 2018, edito da Rubettino editore. Lo contattiamo telefonicamente per parlare di quest’ultimo lavoro e della sua ricerca sui luoghi e il tema della migrazione interna.
Il romanzo CasaperCasa
CasaperCasa è un racconto di luoghi e di persone, è romanzo e insieme reportage: quanto conta lo spazio reale per il suo autore? Quanto questo spazio sta cedendo il passo a una “residenza” più virtuale che concreta?
I luoghi non mentono. Ogni luogo, anche quello più reticente, – è solo questione di tempo e profondità – è una confessione capace di smentire qualsiasi dichiarazione d’intenti. Che si tratti delle aree iper-popolate della pedemontana padana o del disastro idrogeologico rappresentato dalla Lucania materana, i luoghi sono sinceri. Non bastano le cosmesi urbane o i mascheramenti, ogni azione umana si riflette nella realtà, nel paesaggio circostante, che a sua volta mostra inesorabilmente l’accaduto e la sua logica. E poi c’è il sacro, c’è nei luoghi questa discorsività capace di celare il suo stesso enigma. I luoghi, per dirla con Merleau-Ponty, conservano qualcosa dell’opacità del mondo.
Quanto al virtuale, osservare lo spazio circostante è innanzitutto stare nel mondo. Uscire dall’autoreferenziale della società per ritornare a ciò che ci circonda. È un rivedere e ricostituire una relazione decolonizzandoci dall’immaginario mediatico.
Nel testo c’è posto per diversi punti di vista, da quello di una Ferrara idealizzata dallo scrittore Filippo a quello dell’ucraino Giorgio Aggiustatutto quando ricorda al protagonista – Alessandro, professore in congedo per un anno – che non solo i libri parlano della vita della persone ma spesso è vita stessa a dover raccontare di sé: qual è per te la giusta misura tra questi due poli? E poi: la scrittura è anche un atto politico?
Personaggi celebri della letteratura come i protagonisti di Autodafé di Canetti e Di bestia in bestia di Mari, vivono per le loro biblioteche. Tuttavia conoscere è per me un discorso sociale, è autonomia, la quale non può essere individuale, e quindi deve essere per la realtà circostante.
Uno scrittore deve studiare, d’accordo, ma prima di tutto deve saper vedere, osservare e rappresentare, nelle forme da lui scelte, la vita. Ma se la vita ci arriva come l’ombra di se stessa, e finiamo per soccombere a lontane proiezioni, è chiaro che la rappresentazione sarà posticcia e la scrittura di secondo o terzo ordine.
In questo senso la parola deve ricercare prima di tutto un discorso comune, e questo significa paradossalmente sottrarsi, risparmiarla e nutrirla, in cerca di una rete che sia in grado di strutturarsi e ramificarsi. Un tentativo odierno è l’Osservatorio del Sudriunito intorno a Piero Bevilacqua, Vito Teti, Tonino Perna, Battista Sangineto, per esempio.
Non credo ai tragitti troppo solitari, o meglio, non credo abbiano l’intento né la forzadi trasformare la società senza prima confrontarsi strategicamente sull’elaborazione di modelli, simboli; per questo credo nello stare nei luoghi e tra le persone, negli spazi vilipesi e offesi.
Cambiare il linguaggio è importante ma non vuol dire trasformare la società, senza aver contestualmente intaccato la forma stessa della società attraverso l’immaginario e poi le istituzioni.
La scrittura può essere, quando va bene, un atto civile e sociale più che politico, senza la strategia e la rete di cui parlavo poc’anzi, non può trasformare la società.
Il mezzogiornopadano
I temi dell’appartenenza e dello sradicamento sono tra i motivi portanti della tua scrittura.
Sono un mezzogiornopadano, un cittadino ibrido, non contemplato nei censimenti ma di cui questo Paese è pieno. Racconto l’Italia senza rappresentanza, i paesi scissi, le città smarrite, i meridionali al nord, gli stranieri residenti, sfaccendati, girovaghi, profughi, esuli.
L’essere migrante interno, nativo di un paese dell’Appennino meridionale, mi ha spronato a narrare gli squilibri, a fotografare e mappare l’Italia dello spaesamento. Chi emigra risiede nella forza centripeta del capitalismo, è preda dello sviluppo che ancora una volta mescola i destini del mondo, ma l’altra parte della medaglia, ciò che il migrante lascia indietro, sono le aree spopolate, i paesi e le campagne abbandonate d’Europa.
Questo viene in parte omesso perché a raccontarcelo è la visione cittadina e urbanocentrica delle tv e dei giornali, per cui cerco di raccontare ciò che esiste ma non si vede se non per le strade, nelle piazze, o nella realtà quotidiana.
Quanto alla politica italiana, se c’è una cosa terribile dell’Italia di oggi non è tanto l’amore per la propria cultura o identità, ma il fatto che si desideri che essa escluda, oppure che se ne faccia strumento di potere contro i più deboli. È un’idea di patria, questa, che non ha rispetto per il genere umano, di cui ci si può solo vergognare.
L’altra faccia terrificante della politica odierna è che si dice di voler difendere una civiltà che tuttavia non si conosce, il tentativo di uniformare l’Italia nel populismo è la più grande forma di vigliaccheria e viltà delle attuali classi dirigenti, oltre che prova di autentico provincialismo. Quello che accade chiama direttamente in causa non tanto l’imbarazzante destra da Berlusconi a Salvini, quanto gli ultimi trent’anni di sinistraitaliana.
Progetti futuri, infine: “Nell’anno trascorso mi sono occupato dell’ultimo spazio vuoto della pianura padana, il delta del Po. Lo inseguo sulle orme di Celati e Cibotto, come al solito senza regole né programmi”.
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