Da Domenica (Il Sole 24 Ore) del 10 gennaio
C’è poco da fare. Basta solo citarlo, ed ecco che dietro il nome di Georg Jellinek guizza l’ombra dei grossi volumi dove alla fine dell’Ottocento egli raccolse i frutti della sua scienza giuridica. Primo tra tutti quello che egli spiccava dal fusto della sovranità dove i diritti fondamentali derivavano, sì, dallo State che però non poteva disporne a capriccio perché limitato ab extra da quella aerea, impalpabile eppure efficacissima cosa che è l’opinione pubblica. Ecco: l’opinione pubblica. Per questo, è soprattutto per questo, insegnava Jellinek, che negli Stati di libertà i governanti si trattengono sulla china precipite della sopraffazione: per non sfidare l’orientamento generale degli spiriti.
Guai perciò quando le norme sui diritti non s’intonano con gli stili di vita che ascendono dalle profondità oscure e limacciose di una comune tradizione. Guai: un tornado di scontento spazzerebbe via tutto quanto, a cominciare proprio da coloro che tra i fumi del potere non si danno pensiero di sintonizzarsi con «il limite fissato dallo sviluppo storico». La teoria dell’«auto-limitazione» statale è tutta qui. Piace? Spiace? Non sappiamo. E per la verità neppure ci interessa saperlo perché il discorso corre ora ad altro fine. Che è quello di ricordare come a furia di scrutarla di faccia e di scorcio, a forza di infilzarla coi pro e coi contra, proprio questa teoria ha catturato per sé ogni attenzione, tenendola discosta così dagli scritti di altra natura che pure costellano il magistero di Jellinek, ma che paiono come rinsecchiti dall’oscurità in cui li ha profondati la comune dimenticanza. Paiono, però. Paiono soltanto rinsecchiti, perché a trarli dall’ombra essi sfavillano di una luce inattesa su cui l’occhio si posa ammirato proprio come per una festa di molteplici colori. Brava perciò Sara Lagi a proporne alcuni, mai prima tradotti in italiano, che coprono un’ampia, capace distesa di interessi la quale, se da un lato testimonia la multiforme sensibilità di Jellinek, dall’altro però non autorizza a pensarlo come un autore centrifugo, disancorato, dove i concetti divagano come raggi non più attratti dal loro centro.
Il centro c’è. Eccome se c’è! Quale che fosse il punto di luce (filosofico, letterario o poetico) esso cadeva sempre a perpendicolo sull’individuo, sull’individuo singolo, sull’individuo che nella sua intrasferibile originalità dice “no, non ci sto” con i gusti e le opinioni dominanti e rivendica il diritto di seguire la sua strada, che per essere proprio la sua è perciò stesso anche la sola vera. «Nelle migliori nature – scrive Jellinek si muove sempre qualcosa… che potrebbe essere definito come un ostinato sentimento di minoranza».
E proprio alle minoranze Jellinek dedica il saggio di maggior succo di questa raccolta, quello più schiettamente politico, e lo fa con un fremito di intima preoccupazione che veramente cattura l’attenzione del lettore. E a ragione, bisogna dire: perché se è vero, come si diceva all’inizio, che in ultima istanza è l’opinione pubblica a decidere dei diritti individuali, è pure vero che nelle moderne democrazie proprio quest’opinione si mostra ognora più dura con lo sviluppo dei singoli. Si dà il caso infatti che la principale caratteristica della democrazia sia l’eguaglianza delle condizioni. Ora, uomini simili per diritti, ricchezze e istruzioni, è giocoforza che nutrano una istintiva diffidenza per il giudizio dei loro simili. Il prossimo – pensa ciascuno di loro – non è né peggiore né migliore di me: non ha senso perciò sacrificare la mia intelligenza a quella altrui. Tutto questo, beninteso, finché i singoli considerano ad uno ad uno i loro concittadini. Quando però si pongono al cospetto dell’insieme della cittadinanza, avvertono di colpo la loro piccolezza e abdicano d’un subito alla loro individualità.
Tocqueville (con il quale Jellinek aveva grande dimestichezza) lo aveva intuito con intelligenza presaga: «A mano a mano che gli uomini si assomigliano di più, ciascuno si sente sempre più debole in confronto a tutti». Ed ecco perché nelle società democratiche sarà sempre «più difficile credere a quello che la massa respinge». Parole, queste, dalle lunghe risonanze che si propagano in circolo fino a raggiungere Jellinek quando Jellinek, con parole dove si sente l’affanno della propria passione, scrive che «niente al mondo può essere più crudele… quanto una maggioranza democratica». Poi aggiungeva: «Solo un uomo lontano dalla realtà può fantasticare sulla favola delle masse che amano il Bello e il Vero». Quale rabdomantica precisione! E pensare che ancora non s’era inaugurato il secolo breve…
di Gaetano Pecora
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di Gaetano Pecora