Da Il Foglio del 4 dicembre
Per la verità, in questi ultimi anni – complice il linguaggio dei mass media – abbiamo assistito a un uso indiscriminato e fuorviante dell’appellativo di “eccellenza”, a un vero e proprio abuso del concetto come panacea di modernizzazione e sviluppo sociale, politico e culturale. Ciò che impone molte precisazioni e un po’ di cautela nell’impiego a tutto campo che se ne fa per designare situazioni e personalità che si collocano su di un piano superiore a quello della fisiologica circolazione delle élite, che possono essere gruppi di comando senza particolari qualità e quindi senza attributi di eccellenza, qualcosa di più persino rispetto alla logica della meritocrazia, che si applica solitamente ad aristocrazie competitive i cui membri esibiscono un qualche criterio di supremazia nel possesso di particolari capacità, conoscenze e competenze.
Per cominciare, l’ambiguità del termine è di natura etimologica. Eccellere viene dal latino ex-cellere, letteralmente “spingere fuori”, diventando sinonimo di “sublimità”. Non a caso, fino a poco tempo fa, si usava questo astrattismo prevalentemente nei titoli onorifici ed esornativi, con espressioni del tipo “Vostra Eccellenza”, “Sua Eccellenza”, “Loro Eccellenze”. Titoli riservati ai sovrani, soprattutto dell’età longobarda e franca fino al XIV secolo e in seguito attribuiti agli ambasciatori, agli alti funzionari dello stato e agli arcivescovi.
In Italia, ma anche in molti altri paesi europei, è un titolo adottato dalle consuetudini e convenzioni protocollari, ma anche, più in senso stretto giuridicamente, in campo politico (per gli ambasciatori residenti; e nelle cerimonie ufficiali, per rivolgersi a un Capo di stato o a un ministro), amministrativo (per i prefetti in sede), giudiziario (per il primo presidente e il procuratore generale della Cassazione, i presidenti delle Corti di appello e i procuratori generali), religioso, nobiliare e militare. Questa prassi venne consolidata e imposta per legge durante il fascismo.
(…) La democrazia è strutturalmente inadeguata a riconoscere ed esprimere “eccellenza”, consistendo fondamentalmente in meccanismi di conteggio maggioritario dei consensi elettorali. Per suo tramite si assegnano posti di potere e di governo, ma non è detto – da Aristotele in giù (ma anche in su) – che questi vadano agli individui migliori, più capaci, più competenti. Anzi, è vero il contrario – tanti sono i motivi che orientano le scelte elettorali, ma quasi sempre estranei a valutazioni di merito nel senso “aristocratico” della parola – al punto che democrazia e meritocrazia si pongono di solito come espressioni contraddittorie. Insomma, sembrerebbe di fatto che virtù civiche e competenze non siano la formula vincente nelle dinamiche della rappresentanza politica, in quanto i modi di formazione e attrazione del consenso popolare seguono logiche tendenzialmente irrazionali riconducibili alla psicologia di massa dei fenomeni di potere. La superiorità etica e istituzionale della democrazia rispetto agli altri regimi finora esibiti sulla scena storica sta nel fatto, evidenziato da Karl Popper, che le sue prerogative non sono tanto quelle di scegliere chi deve co- mandare, quanto piuttosto quelle di controllare chi comanda (e poter rimuovere i cattivi governanti). Ciò che nello stato di diritto è stato teorizzato come equilibrio fra poteri, ovvero come bilanciamento fra poteri e contropoteri.
In questo senso, il vizio capitale, il peccato originale della democrazia – che ha sollevato in ogni tempo critiche serrate allo stesso regime parlamentare – è la tendenza fatale a trasformarsi in “tirannia della maggioranza”. Il che prefigura degenerazioni assolutistiche e l’incubo del totalitarismo sotto la specie moderna dello statalismo onnivoro: che spiega, a sua volta, perché in un sistema democratico nel quale vengano annullati lo spirito e la prassi della competizione pluralistica “emergano i peggiori”, come osservava Friedrich von Hayek.
Non a caso, l’antidoto ricorrente contro questi effetti collaterali del progetto democratico, che mistificano e mortificano il merito, è la tecnocrazia. Detto dunque che l’eccellenza non è alla base del sistema politico democratico e non può esserlo, è d’obbligo notare che in effetti non è un’idea totalmente contraria a qualsiasi sistema politico. Ne sono esempi l’aristocrazia, la ierocrazia, la timocrazia, il paternalismo, la tecnocrazia e la sofocrazia di Platone in cui i saggi, i filosofi sono le punte alte della società e solo loro vedono, oltre le ombre, la realtà delle cose del mondo.
Tra tutti questi sistemi, la tecnocrazia è quello di maggior attualità. Si tratta di “potere degli esperti” cooptati non elettivamente. Uomini che, anche se non politici di professione o non politici in senso stretto, gestiscono il potere nella sua unica accezione, quella politica, consistente nell’obbligare l’individuo b a compiere l’azione x che non vuole compiere. Legittimità del potere esercitato tramite il monopolio della forza dello stato. La politica sulla società e sull’economia. La tecnocrazia è una vera e propria ideologia con i capisaldi della competenza e della efficienza, e con il timore che la democrazia delle masse (e/o il loro disinteresse) possa portare incompetenza, corruzione e particolarismo. Postula una concezione oggettivistica del bene comune, conoscibile mediante ragione e metodo scientifico, per un declino delle ideologie più strettamente politiche e la sostituzione con un principio unificante della società in nome della scienza quale visione obiettiva e immune da “interessi” personalistici. Ma, come osserva Pareto, “si può peccare per ignoranza, ma si può anche peccare per interesse. La competenza tecnica può evitare il primo male, ma non può nulla contro il secondo”. La corruzione, il cedere a interessi personali non è prerogativa dell’uomo più strettamente politico, ma è un incentivo che chiunque trova nel sistema pubblico a spese altrui. La supposta oggettività del punto di vista scientifico, poi, è cosa tutta da dimostrare, soprattutto davanti all’epistemologia popperiana che “propone una visione della scienza come realtà aperta alla falsificabilità più che volta a una definitività dimostrativa”: “ecco perché, pur predicando il tramonto delle ideologie, la dottrina tecnocratica è essa stessa un’ideologia” (Fisichella). Oltretutto anche quando i tecnici riuscissero ad avvicinarsi a un qualche criterio di imparzialità, come insegna Von Mises con la sua economia (intesa come scienza di tutta l’azione umana, come “scienza dei mezzi”), esso può essere raggiunto solo per quanto riguarda gli strumenti. Mezzi da usare per arrivare però a fini la cui scelta è totalmente discrezionale e arbitraria. Insomma, con la tecnica si può decidere il “come”, ma non il “cosa”, questo è sempre una questione di giudizi di valore.
Quindi, i sistemi democratici, quasi per definizione, non si basano sull’eccellenza. In quest’ambito potrebbe risultare fuorviante parlare di eccellenza, in quanto la democrazia è essenzialmente un insieme di procedure, regole e convenzioni, come precisato da Kelsen [1984]. Un sistema di istituzionalizzazione del conflitto sulla base di valori e regole condivise, come nota Schumpeter, in base al quale possono anche essere eletti dei non “eccellenti”, dei soggetti perfettamente rappresentativi dell’elettorato medio o, addirittura, i peggiori [Shumpeter 1949]. È proprio nel criterio di inclusività generale che consiste la “democraticità”. Alla base di qualsiasi sistema democratico, c’è poi il principio di maggioranza nelle decisioni.Nella sua formulazione elementare, tale principio, oltre a creare solo giochi a somma zero (in cui la somma dell’utilità creata è sempre nulla, in quanto chi vince, vince tutto e chi perde, perde tutto; a differenza del mercato che dà luogo sempre a giochi a somma positiva in cui tutti gli attori del sistema guadagnano qualcosa), di per se stesso esclude ogni possibilità di valutazioni e decisioni esterne, anche in nome dell’eccellenza. Quindi l’eccellenza non solo non è, ma non può essere alla base della democrazia, in quanto si dovrebbe decidere cosa e chi è eccellente con scelte non a maggioranza.
Il concetto di “eccellenza” è sicuramente dibattuto con più attinenza alla sfera economica che a quella politica. Questo accade sia nell’opinione comune sia nella letteratura specialistica, dove sembra essere più un obiettivo di strategia aziendale. Gli autori quindi, fissandone i criteri distintivi, indicano contemporaneamente il cammino per perseguirla, come dimostra l’ambivalente titolo del più fortunato testo sull’argomento: In search of excellence di Tom Peters e Robert Waterman. Si fa qui riferimento alle performance finanziarie, alle grandi dimensioni, alla qualità dell’ambiente lavorativo (si veda l’indice internazionale Great place to work), ad alti livelli di produttività, di specializzazione del lavoro, di innovazione e di investimenti in ricerca, alla qualità del prodotto finale, alla customer satisfaction, alla customer care e al know how aziendale, fino a una definizione di “gestione della qualità totale” (tqm).
Al di là dello sguardo alla letteratura, è da notare che nel dibattito pubblico, l’enfatizzazione dell’eccellenza deriva soprattutto dai mass media. Spesso tirata in ballo dai diretti interessati. Valga a titolo esemplificativo l’articolo de “Il Sole 24 ore”, Piccole imprese, ma eccellenti a cura di C.M. Guerci (1997). È questo l’ambito in cui si parla di solito di eccellenza. O, addirittura, allargando: quello di un Paese con delle difficoltà ma con alcune “nicchie di eccellenza” riferendosi solitamente a una certa qualità di prodotto (ad esempio del vetro di Murano); a imprese che in controcorrente innovano o esportano più di altre, magari in periodi di crisi; all'”eccellenza del made in Italy”, a una tipica gestione organizzativa (i distretti industriali). Semplice cronaca, motivo di vanto o richiesta di particolari attenzioni fiscali da parte dei detentori del potere.
Oltre all’aspetto relativo al possibile ruolo del principio di eccellenza nella costituzione di un ordinamento politico, c’è poi un’altra dimensione che non va assolutamente sottovalutata: gli agenti del sistema politico producono. È un po’ come passare dal cosa “è” un ordinamento politico, al cosa “fa”. Contemporaneamente, così, torna e si intreccia la questione della democrazia e dell’eccellenza e se nella prima ci sia spazio per la seconda.
Parlare di eccellenza significa porre lo sguardo alla punta alta di un insieme, di una catalogazione, di una classificazione. Politiche che si rifanno all’idea di eccellenza sono quindi interventi che guardano alla fascia elevata della categoria osservata. Posta l’attenzione sul giusto target, ci sono poi vari atteggiamenti che si possono avere verso questa eccellenza: rimanere indifferenti; essere contrari; essere a favore.
Il primo caso non ha motivo di essere analizzato, in quanto non si verificherebbe nessuna azione, né pro né contro da analizzare. Il secondo atteggiamento potrebbe essere riassunto in azioni di livellamento verso il basso, di freno, di appesantimento, di solito appartenenti a filoni egualitaristi. Il terzo caso è quello che sembra avere connotazioni più attuali, poiché quasi nessuno si dichiara contro le eccellenze, almeno ufficialmente. Tutti, quindi, o quanto meno tutti i regimi democratici sembrano raggrupparsi in quest’ultima casella. Essendo a favore delle eccellenze i policy makers possono prendere due tipi di decisioni: assisterle o liberarle. Si può cioè finanziarle o prevedere degli sgravi fiscali; dirigerle attribuendo più compiti, diritti o status giuridici oppure lasciarle fare, togliendo doveri, incombenze e appesantimenti. Vale la pena precisare che questo non è un fenomeno osservabile solo in campo economico. Si può pensare, ad esempio, a incombenze burocratiche e inquadramenti giuridici. Contemporaneamente è però un fenomeno sempre economico, in quanto ogni decisione pubblica ha un costo, ma addirittura in quanto ogni azione è azione economica (ed economizzante) [Mises 2007].
Il concetto di eccellenza rimanda poi anche a quello di merito. Il merito è un fenomeno dinamico interno alla competizione. Ma già se si trasforma in “meritocrazia” diventa qualcos’altro che genera sospetti di assolutismo. L’eccellenza, invece, non è solo criterio di qualità dinamico, ma anche attributo statico di onorabilità. E in questo senso potrebbe rimandare alla timocrazia (di Montesquieu) in cui l’eccellenza verrebbe a coincidere con l’onore. Attributo onorifico e pretesa reverenziale statica,magari non acquisita permeriti ma ricevuta ereditariamente o per cooptazione.
Politiche di promozione delle eccellenze dunque che, almeno a prima vista, possono far pensare ai “capaci e meritevoli”, al merito appunto: alla sua promozione di cui tanto si dibatte. Qual è dunque il rapporto tra politiche per il merito e politiche per l’eccellenza? Si tratta di aspetti simili? Sono fenomeni senza alcuna connessione o due poli in contraddizione?
In questa prospettiva l’idea di merito ci suona subito come già raggruppante quella di eccellenza, ma contemporaneamente sembra anche si tratti di un insieme più vasto. Infatti se, come detto, discorrere di eccellenza è rivolgere lo sguardo alla sola parte alta della piramide, perseguire lameritocrazia riguarda anche i gradini bassi della piramide. Il merito si configura, infatti, come mobilità sociale bilaterale: in salita, ma anche in discesa. Le politiche per l’eccellenza, per esempio, si preoccupano di non ostacolare e premiare gli eccellenti (si veda il “rientro dei cervelli”), per contro, le politiche meritocratiche tolgono anche i privilegi di chi eccellente non è (interventi contro le corporazioni) o addirittura li puniscono: fanno sì che non solo chi eccelle abbia quanto merita ma anche che chi dà scarse performance riceva quanto (poco) merita.
Detto tutto ciò, comincia a traballare ogni nostra certezza sul concetto stesso di “eccellenza”. Serve quindi approfondirlo. Si è preferito affrontare solo ora tale questione proprio per mettere in luce i trabocchetti che spesso la mente ci gioca e che le utili semplificazioni rafforzano: dar per scontato cosa si intenda per eccellenza, che esista un concetto di eccellenza, che sia oggettivamente indicabile, etc. Eppure non è detto che quando ne parliamo, quando usiamo il termine (la forma) eccellenza, abbiamo tutti in mente la stessa cosa (la sostanza). Inoltre, per la buona riuscita di un ragionamento scientifico e per tentare di mettere da parte pressappochismi e usi discrezionali di semplificazioni e generalizzazioni, è sempre opportuno procedere in primo luogo ad affrontare la questione delle definizioni. Che cos’è dunque l’eccellenza? La domanda potrebbe sembrare di facile lettura e addirittura tautologica, tale da meritare una risposta quasi assiomatica del tipo “l’eccellenza è quello che tutti sanno essere eccellente”, tentando di rifarsi all’opinione comune. Oppure qualcuno Oppure qualcuno potrebbe darne una definizione ex cathedra, una definizione da “esperto” che non intende descrivere quello che la gente pensa sia (l’eccellenza), ma prescrivere quello che dovrebbe pensare sia. Ne fisserebbe i criteri che altri dovrebbero seguire, in quanto possessore di conoscenze, capacità e informazioni maggiori di altri. È facile notare come entrambe queste due strade portino a infinite speculazioni, tipico campo di autolegittimazione degli “esperti”. La seconda in quanto parte proprio da tale presupposto, la prima perché l’analisi di cosa tutti pensano significa, per forza di cose, l’analisi di cosa “ognuno” pensa. Un numero interminabile di variabili che verrebbe necessariamente ridotto con metodi discrezionali. La questione ha invece uno spessore diverso. Quando si dice che qualcosa è o no eccellente si sta compiendo una valutazione. E le valutazioni, tutte, sono soggettive (si ricordi che siamo nel campo delle scienze sociali e non naturali), come dalla fine del diciannovesimo secolo insegna la Scuola austriaca e la teoria del valore soggettivo.
Assumiamo infatti di poter definire il concetto di eccellenza per un numero di persone superiore a uno. Chi lo definisce? E con quali criteri? Chi decide i criteri? E chi decide chi è il decisore? Non sono domande pleonastiche. Ci sono tre ipotesi: lo decide un solo individuo per tutti gli altri; lo si decide mettendosi d’accordo, quindi a maggioranza; la risposta emerge spontaneamente con esito compositivo tramite l’interazione di più individui che decidono ognuno per sé. Non è difficile intravedere, in questi diversi modi di definire l’eccellenza, tre diversi sistemi. Il primo dà adito a quei timori di abuso della ragione che si incarnano nell’autoritarismo, nella dittatura, nel dirigismo, nel paternalismo, nella tecnocrazia. Il secondo semplicemente ricade nel punto da cui siamo partiti: la democrazia. Per il quale allora non ha alcun senso porsi tali interrogativi, in quanto eccellente è ciò che è definito tale dalla maggioranza. Il terzo modello, invece, è rappresentato dal mercato, inteso nella sua accezione lata che non distingue tra economia in senso stretto e il resto della vita sociale. Va da sé che trattandosi di modelli esemplificativi, questi sono casi che poi nella realtà convivono e si mescolano. Si tratta quindi di dare più peso a uno o all’altro con proprie scelte di valore.
Quelli pubblicati sono stralci de “I molti e i pochi. La società ‘sotto-sopra’ dei diseguali”, libro di Raffaele De Mucci (ordinario di Sociologia politica alla Luiss Guido Carli di Roma) in uscita per Rubbettino
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Altre Rassegne
- Il Foglio 2015.12.04
L’eccellenza è mediocre