Il dibattito sulla secolarizzazione, che sembrava definitivamente archiviato, a causa del conclamato “ritorno del sacro” nel contesto cosiddetto post-moderno, tende invece a riaccendersi e ravvivarsi, magari a intermittenza, almeno a partire dalla pubblicazione del fondamentale volume di Charles Taylor, A secular age del 2007. Ora ritorna in maniera più eclatante e criticamente avvertita nell’interpretazione che ci offre il sociologo Luca Diotallevi, nella sua ultima ed impegnativa fatica Il paradosso di papa Francesco. La secolarizzazione tra boom religioso e crisi del cristianesimo (Soveria Mannelli, Rubbettino Editrice, 2019, pagine 272, euro 15) e, in filigrana, nell’interessante saggio del vaticanista Marco Politi, La solitudine di Francesco. Un papa profetico, una Chiesa in tempesta (Bari, Laterza, 2019, pagine 242, euro 16,). Il ricorso ad una categoria così pregnante, che si ripropone come un’araba fenice a partire dalla modernità, chiede di tener conto della complessità di una realtà sociale ed ecclesiale, che non si presta a semplificazioni, tantomeno a banalizzazioni. Per cui non possiamo non accogliere con favore l’invito del sociologo che auspica una Chiesa che sappia «offrire più cultura e cultura più sofisticata, non meno cultura e cultura più banale, più disciplina e una disciplina spiritualmente più qualificata, non meno disciplina o banali e superficialmente rassicuranti ricette», nell’orizzonte di «un maggior confronto critico, una comunicazione e una revisione ecclesiale più intense». Mi limito qui a trarre ed indicare alcuni spunti di riflessione critico-teologica, a partire dalla lettura e dalla sottolineatura di alcuni passaggi di questi due recenti testi, auspicando ulteriori occasioni di dialogo e di approfondimento. In questo senso chiamare in causa il binomio secolarizzazione/religione significa sottrarsi alla banalizzazione di un conflitto di interpretazioni, che spesso risulta ideologico e meramente mediatico.
Se, infatti, secondo Diotallevi, si può considerare superato il paradigma classico, che interpreta la secolarizzazione soprattutto come sostituzione della sfera religiosa da parte di quella civile e politica, optando per l’adozione di una diverso paradigma (quello della “differenziazione funzionale”), ispirato alla lezione del pensatore tedesco Niklas Luhmann, non si può neppure dimenticare la polisemia del termine di riferimento, che, oltre le due già indicate accezioni, ne sopporta e supporta anche altre, tra le quali l’affinità col processo di desacralizzazione e di disincanto rispetto alla natura, alla società e alla Chiesa stessa, fino all’ateismo, oggi sostituito da una sorta di incredulità giuliva, e il passaggio, forse mai pienamente compiuto, dalla teocrazia alla democrazia, che richiede una serie di accorgimenti terminologici e speculativi di non facile realizzazione.
Certamente in tutto questo prisma semantico emerge con vigore la questione di Dio, e direi del “soprannaturale”, ovvero della “trascendenza”, che ancora ai tempi del progetto culturale della Chiesa italiana veniva indicata come decisiva, tanto da far intitolare eventi e volumi al monito «con Lui o senza di Lui cambia tutto». Diotallevi pone la questione in questi termini: «Per secoli la nostra cultura, almeno in termini generali, ha compreso molto bene cosa significasse “dio”. Gli atei, non meno dei credenti. Litigavano perché si capivano. Ma oggi, cosa significa “dio”?». E, ispirandosi alla lezione luhmanniana, avverte: «Potrà avere mille forme, potrà impiegare il termine dio o mille alti equivalenti, semplicemente — per Luhmann — un sistema religioso (e dunque una singola tradizione religiosa o un singolo attore religioso) privo di una riflessione, di un’autodescrizione, di una dogmatica, e dunque innanzitutto di una efficace re-entry della trascendenza nel campo dell’immanenza, non sopravvive a lungo. Ancora una volta: cessa di esistere».
Risulta allora decisiva la scelta di Marco Politi di muovere i primi passi del proprio volume, evocando la questione del “Dio di Francesco” e, all’interno di essa, richiamando il tema dell’al di là. Riguardo al destino eterno di una persona sedicente non credente, il vaticanista chiama in causa il dialogo del papa col piccolo Emanuele, nella parrocchia di Corviale. La risposta di papa Francesco alla domanda del piccolo Emanuele circa la sorte di suo padre, non credente, ha avuto una notevole risonanza mediatica e ha destato una certa meraviglia soprattutto in quanti ritengono il Regno dei cieli riservato solo a coloro che si dichiarano e professano di fede cattolica e praticano quanto credono nelle forme convenzionali, a volte stereotipate, più diffuse. Intanto mi sembra che ci saremmo dovuti meravigliare del fatto che, in un contesto secolaristico come il nostro e in un quartiere così problematico dal punto di vista sociale, ci sia chi si pone ed esprime la domanda sul destino eterno di una persona. Sembrerebbe infatti fuori tempo e fuori luogo, immersi come siamo in una serie di problematiche intramondane, occuparci dell’aldilà.
E tuttavia forse non c’è modo più autentico di affrontare il nostro quotidiano e di vivere l’umano, se non quello di guardare, con gli occhi appunto di un bambino, noi stessi e il mondo dal di fuori. La domanda di senso, sul senso dell’esistenza, posta da chi si sta affacciando alla vita e vi sta muovendo i primi passi, che inciampano nella triste e drammatica esperienza della perdita di un genitore, non può non interpellarci e darci a pensare. Ma ci ha interpellato e fatto riflettere anche la modalità che il papa ha adottato nell’abbraccio ad Emanuele e nel rivolgersi alla comunità credente, chiedendo ai presenti di rispondere. Diremmo che più che a se stesso, alla propria autorità pontificia, al proprio magistero, Francesco si è voluto appellare al popolo di Dio, a quello che i teologi chiamano il sensus fidelium, attraverso il quale lo Spirito parla a tutti noi, offrendo risposte alle nostre domande fondamentali.
E proprio perché è lo Spirito a parlarci, si tratta di risposte aperte e dinamiche, che possono metterci in crisi e aiutarci a ripensare il nostro essere cristiani nell’oggi della storia e di fronte alle problematiche della nostra vita e del mondo in cui viviamo. E del resto il papa non ha mancato di sottolineare che «chi dice chi va in cielo è Dio», denunciando ogni presunzione anche umana di conferire passaporti per il regno dei cieli. Nella fede cristiana l’umano e il divino si intrecciano e si incontrano e l’una dipende dall’altra in maniera imprescindibile. In questo senso l’annuncio di cui si fa carico papa Francesco risponde in pieno all’esigenza di trascendenza nell’immanenza, espressa tramite Diotallevi da Luhmann. E a chi si fosse scandalizzato, ritenendo buonista la risposta di Francesco e prima di lui del popolo di Dio, andrebbe ricordato che questa sarebbe stata la risposta di Gesù di Nazareth alla domanda di senso, che forse oggi come oggi solo i bambini sanno porre e porgere, a un mondo adulto spesso distratto e rivolto solo al mondano.
Quanto alla questione di Dio in sé, Politi richiama un quesito posto da un lettore di Famiglia cristiana: «Nel catechismo mi fu insegnato che con il Battesimo si diventa figli di Dio. Ora papa Francesco dice che siamo tutti figli di Dio. Chi ha ragione?». La risposta data dal sottoscritto viene ritenuta una «complicata gimkana dottrinale», avendo invitato ad imparare l’uso dell’analogia, per interpretare correttamente espressioni come quella della nostra figliolanza rispetto a Dio. Rispondevo al lettore richiamando il fatto che c’è un essere figli che viene dall’essere creati, per cui Dio è padre di tutti, perché da lui noi tutti siamo stati creati. Questa verità era già affermata sia in ambito pagano, dove per esempio leggiamo che “Zeus è padre degli uomini e degli dei”, sia in quello ebraico, dove Dio considera e tratta il suo popolo come un padre i suoi figli. Con la venuta del Figlio siamo chiamati a diventare figli in Lui, quindi, tramite la grazia, a incorporarci nella Chiesa, che è la comunità dei figli di Dio, non in senso esclusivo, ma inclusivo. Questa appartenenza non deve suscitare in noi sentimenti di superiorità o di disprezzo verso coloro che non hanno ricevuto il Battesimo, ma portarci a riscoprire la nostra e la loro natura creaturale e a vivere nella solidarietà con tutto il genere umano, della cui unità la Chiesa è segno. La domanda comunque è complessa e quella che può sembrare un’arzigogolata risposta teologica, altro non è che un cercare di far riflettere andando oltre le banalizzazioni giornalistiche, e rispondendo all’appello di Diotallevi verso la “fatica del concetto”, di cui non possiamo mai fare a meno. In ogni caso, secondo il vaticanista, «Il Dio di Francesco è così. Trascende la Chiesa, scavalca le barriere dottrinali, per lui Dio si manifesta in tutti gli uomini, oltre ogni barriera identitaria». E la domanda di cui dobbiamo farci carico diventa: ma si tratta del Dio di Francesco o del Dio di Gesù Cristo? E, per riprendere la tematica del rapporto secolarizzazione/religione: quale immagine di Dio esprime meglio la trascendenza del totalmente Altro, quella che esclude o quella che include, accoglie e quindi ama incondizionatamente tutti?
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