Da Il Sole 24 Ore – 07 ottobre 2012
Fino a pochi anni fa, la figura di Umberto Zanotti Bianco era tra le più trascurate dalla nostra storiografia. Non era una figura facilmente collocabile: un politico? un pedagogista? un funzionario? uno studioso dell’attualità internazionale? un editore? uno scrittore? un diplomatico? Fu quel che oggi è diventato buon uso chiamare «operatore sociale», un grande operatore sociale. Mosso da una vocazione ostinata al «ben fare» in un paese dove c’era molto bisogno di persone come lui, di cerniera e dialogo tra l’alto e il basso, tra l’amministrazione statale e il disagio locale, tra gli intellettuali e gli analfabeti. Liberale attento ai socialisti, credente vicino ai cattolici, amico di LeopoIdo Franchetti, di Giustino Fortunato, di Antonio Fogazzaro, di Maria José di Savoia, di Gaetano Salvemini, di Manlio Rossi-Doria, fu tra gli animatori o fondatori di alcune istituzioni private importantissime, nella storia italiana della prima metà del Novecento.
Fu trai primi a visitare la Russia dopo la rivoluzione per portarvi aiuti concreti, tra i più attenti a studiare (con Andrea Caffi suo collaboratore) la situazione balcanica prima e dopo il conflitto mondiale, fu anche archeologo (ne scrive sopra Settis), ma soprattutto fu a lungo presidente dell’Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia (Animi). Dopo il 1918 e prima dell’avvento del fascismo egli aveva fondato in Calabria scuole per l’infanzia e ambulatori per l’assistenza alle madri che il fascismo copiò e burocratizzò con l’Opera Nazionale Maternità e Infanzia, ed era stato un instancabile viaggiatore nel Sud, di paese in paese e si potrebbe dire di disastro in disastro, come documentano gli scritti reperibili ora presso Rubbettino, con il significativo titolo Tra la perduta gente. La storia dei gruppi privati di intervento sociale e pedagogico italiani, attivissimi sin dall’Unità, non è stata ancora raccontata come merita, anche se di recente molti giovani storici vi si stanno dedicando, interessati alle minoranze e alloro cemento, alla loro tradizione e ai loro scambi e alle loro filiazioni, considerandoli non meno importanti che la storia dei grandi raggruppamenti politici. E così è arrivato anche il momento di Zanotti Bianco, preziosa riscoperta da cui ci sarebbe ancora molto da apprendere. li suo fascino su chi lo ha conosciuto è stato grande e raro. Ne è una prova, insieme all’attenta biografia di Zoppi edita da Rubbettino, la lettura del Diario che egli tenne nella Roma degli anni più neri, recuperato e stampato dall’Animi, fitto di avvenimenti tragici e di incontri pericolosi, di iniziative e di mediazioni.
Zanotti Bianco, monarchico, amico personale di Maria José, fu il tramite di relazioni ad alto livello che dovevano preparare al dopoguerra, al dopo fascismo. Si incontrano in queste pagine personaggi di ogni ceto e ambiente, commentati con pudore e sincerità. La Roma di Zanotti Bianco non può non ricordare quella di Alvaro, di Rossellini, della Morante, ma anche quella di Monelli e dei diplomatici e quella di Nina Ruffini e della Benzoni. Ne colpisce soprattutto la continuità della scelta fondamentale di Zanotti Bianco, quella dell’intervento emancipatorio e poco paternalistico nei confronti dei bisogni primari di un popolo afflitto da miserie nuove che si aggiungevano alle antiche, economiche ma anche culturali. Tre filoni, dunque, minoritari all’interno di schieramenti molto più vasti: i liberali, i socialisti e i cattolici. È una storia da scrivere, questa, ma di cui pian piano c’è chi va riportando alla luce parti interessanti e inaspettate, come fa per esempio Mirko Grasso nel suo saggio sull’inaspettato e misconosciuto ruolo di «meridionalista» svolto da Ernesto Rossi nel Sud del primo dopoguerra, un impegno che era attento anzitutto a due temi fondamentali: la terra (la riforma agraria) e la scuola (la cultura come mezzo di riscatto sociale). E come Zanotti Bianco, anche Rossi pensava che fosse primario, per un serio riformismo italiano, un radicale impegno meridionalista.
Di Goffredo Fofi
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