Da Il Giornale del 29 aprile
A un anno, o giù di lì, dalla tragica uccisione di Aldo Moro lo storico statunitense George L. Mosse, all’epoca già ben conosciuto per i suoi studi sulla «nazionalizzazione delle masse» e sulla fenomenologia del totalitarismo contemporaneo, tentò un’interpretazione del pensiero e della politica dello statista italiano.
Lo fece in un’articolata intervista ad Alfonso Alfonsi pubblicata originariamente come introduzione a un volume che, curato dalla Fondazione Aldo Moro, intendeva proporre un’ampia silloge di scritti dell’esponente democristiano, comprese alcune lettere dalla prigionia. Mosse era stato scelto sia perché considerato estraneo al dibattito politico italiano sia perché i suoi lavori erano centrati sul problema della partecipazione delle masse alla vita politica. L’intervento dello storico americano suscitò interesse, ma anche polemiche giunte soprattutto da esponenti democristiani e da studiosi che rimproveravano a Mosse il fatto di non conoscere a fondo la dinamica e le caratteristiche della politica italiana. Presto dimenticato, proprio nell’anno del centenario della nascita dello statista torna in libreria come testo autonomo (George Mosse, Intervista su Aldo Moro, a cura di Alfonso Alfonsi, Rubbettino, pagg. XVIII-124, euro 14) arricchito da una bella prefazione di Renato Moro su Mosse e da un’accurata nota critica di Donatello Aramini.
È uno studio importante. Lo è nel quadro della produzione storiografica di Mosse perché costituisce un tentativo di applicare i risultati della sua ricerca sulla società di massa a un periodo storico e a una situazione politica diversi da quelli da lui frequentati. E lo è, soprattutto, per lo sforzo di leggere e interpretare la politica di Moro in un contesto non più soltanto nazionale, ma in una dimensione comparativa che finisce per collegarla all’evoluzione politico-sociale europea e, in particolare, ai fenomeni di trasformazione e crisi della democrazia parlamentare su cui, a partire già dagli anni ’50, si era sviluppata un’ampia letteratura di taglio prevalentemente politologico.
Secondo Mosse la politica di Moro assume un significato di interesse generale proprio per il fatto di essere collegata a quella crisi del sistema di governo parlamentare propria dei Paesi occidentali e di porsi come un tentativo di risposta alle sfide della società di massa. In quest’ottica, l’essenza della politica sviluppata da Moro si sarebbe risolta in un tentativo di allargamento della «base del sistema di governo parlamentare per cercare di prendere in considerazione la natura della moderna politica di massa». Lo statista democristiano avrebbe finito per diventare, così, il sostenitore di un progetto volto a trasformare il suo stesso partito, la Dc, in una realtà più dinamica e, soprattutto, laica e svincolata dai legami stretti con la Chiesa che ne irrigidivano la struttura e la rendevano inadeguata a percepire i mutamenti di una società di massa in continua evoluzione. Insomma, la posizione di Moro sarebbe stata, se non estranea, conflittuale rispetto al suo partito. Lo statista, secondo Mosse, aveva una concezione dello Stato «come un processo, come un qualcosa continuamente in fieri, un organismo sensibile ai mutamenti» il cui unico punto fermo era il principio del governo rappresentativo: una concezione, in qualche misura, relativistica su cui pesavano le preoccupazioni per la stabilità di un sistema politico che non riusciva a integrare appieno le masse e a generare il consenso necessario per garantire un governo forte ed efficiente oltre che sensibile alle istanze politiche e sociali provenienti dal basso.
In questo quadro, la coalizione di centrosinistra, prima, e il compromesso storico, poi, avrebbero dovuto rappresentare, per Moro, dopo l’esaurimento del processo di ricostruzione postbellica del Paese, l’inizio di una nuova fase politica in cui, sono parole di Mosse, «l’accento fosse posto sull’integrazione dinamica dei gruppi che erano rimasti fuori dal processo politico» oltre che «sulla estensione della ristretta area di consenso che si era stabilita subito dopo la guerra». Il progetto di Moro sarebbe stato sempre quello di cercare d’inserire «nell’attività governativa quei gruppi che ne erano rimasti fino ad allora esclusi, attribuendo loro maggiori responsabilità»: i socialisti, in primo luogo, ma anche, in un secondo tempo, i comunisti. Il tutto, ovviamente, nel presupposto che il sistema di democrazia parlamentare non venisse messo in discussione e risultasse, anzi, rafforzato da questa operazione che avrebbe dovuto ampliare l’area del consenso evitando il pericolo, per un verso, di derive golliste e, per altro verso, di slittamenti verso ipotesi di tipo autoritario o totalitario. L’assassinio del leader democristiano da parte delle Brigate Rosse avrebbe avuto come risultato finale non già quello di «ritardare» l’attuazione del disegno di Moro, quanto «quello di far irrigidire a tal punto il quadro politico da far crollare in pochissimo tempo tutte le prospettive» della «mediazione» morotea.
Pieno di suggestioni stimolanti, il saggio di Mosse, a una lettura non condizionata dall’emotività del momento in cui fu scritto, rivela tuttavia alcuni limiti intrinseci dovuti sia all’uso di categorie storiografiche e politologiche troppo generalizzanti, sia alla mancata e diretta conoscenza della particolarità della dinamica e delle caratteristiche della storia politica italiana, per molti aspetti assai diversa da quella delle altre democrazie occidentali. Esso pone l’accento sulla coerenza del pensiero di Moro come sviluppo di una linea speculativa che, con l’«umanesimo integrale» di Jacques Maritain e il «personalismo comunitario» di Emmanuel Mounier, si proietta verso un preciso ideale di società cristiana. Ma, ciò facendo, mette in ombra uno dei lati più caratteristici della personalità di Moro, quel suo «pragmatismo» che era all’origine di una prassi politica fondata sulla «mediazione» e sul tentativo di esorcizzare o minimizzare le differenze ideologiche. Il saggio, infine, non riesce a dar conto del fatto che, al di là e al di sopra della concezione che Moro poteva averne, l’esperimento del centrosinistra in Italia maturò per una serie di circostanze, anche internazionali, che si svilupparono a partire dalla seconda metà degli anni ’50: l’elezione di Giovanni Gronchi, la teorizzazione del «neoatlantismo», la repressione della rivolta di Budapest con le sue devastanti conseguenze nel comunismo occidentale, l’ascesa al soglio pontificio di Giovanni XXIII, la presidenza di John Fitzgerald Kennedy e l’elaborazione da parte dell’amministrazione americana di un progetto che intendeva utilizzare l’Italia come «laboratorio politico».
di Francesco Perfetti
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