Dal Corriere della Sera del 14 novembre
Non «si legge d’un fiato» Il visionario alato e la donna proibita di Visar Zhiti (Durazzo, 1952) appena tradotto in Italia da Elio Miracco (Rubettino, pp. 62, € 16). Ci vuole una buona settimana. È un romanzo da centellinare, come il vino buono. Dà da pensare, coinvolge, commuove persino. C’è Kafka e c’è Joyce, c’è il modernismo letterario e il realismo magico, l’invenzione e la realtà. Ma è anche un libro difficile, cupo; per certi versi anche terribile, inusuale, sconvolgente. E straordinario. Ogni capitolo, un racconto a sé, una sorta di preludio di una tragedia ininterrotta nel Paese delle aquile. Iniziata a Vienna, la scrittura viene ultimata a Tirana.
Due i personaggi principali: il fotografo dilettante Felix Kondi ed Ema Marku, giovane liceale arrestata perché porta al collo una catenina con la croce e legge la Bibbia e altri libri vietati dal regime albanese di Enver Hoxha.
Liberata, la donna viene nuovamente imprigionata perché, sulla stampa di opposizione, denuncia violenze e torture subite in prigione e le «conversioni» alla democrazia di aguzzini politici e burocrati. Felix, che assiste al processo-farsa, resta ammirato dalla dialettica e dalla bellezza della donna e se ne innamora. Ma la polizia segreta decide di assassinarla. Felix va fuori di testa, ruba la bara e se la carica sulle spalle. Un delirio.
Sullo sfondo, la dittatura. In realtà si tratta di un libro di ricordi. Dietro il personaggio di Felix c’è Visar, i suoi sette anni di prigione e lavori forzati per avere scritto un libro di versi considerati ermetici e «contrari ai canoni del realismo socialista». La descrizione della prigionia di Ema non è un prodotto di fantasia. Visar Zhiti sa di che cosa parla, avendola vissuta, così come suo padre, Hekuran, poeta e commediografo, cui era stato impedito di pubblicare in vita, e che oggi, dopo morto, è riconosciuto come uno dei più importanti scrittori albanesi.
* * *
Felix decide di venire in Italia. Prima tappa, Bari, dove abbandona la vecchia valigia per passeggiare in città: vuol fare un confronto con Durazzo e Tirana. Poi va a Roma, in casa d’un amico albanese, profugo. Accanto a lui, il fantasma di Ema, con la quale parla, fa l’amore, visita i luoghi visti nella tv italiana. Spesso non ricorda dove si trova: sogna di essere in Francia, in Grecia, nei Paesi nordici, in Kosovo. A Bologna sta per entrare in un bar, ma sbatte violentemente la testa contro la porta a vetri. Dice al cameriere: «Vengo da un Paese sporco, perché avete lavato così bene i vetri? Non si capisce che è una porta». L’Albania cerca l’Europa, ma l’Europa è senza pietà. Da Roma a Vienna. Felix conosce una libraia che assomiglia a Ema, ma la donna non accetta di farle da controfigura e lui la lascia.
Il viaggio continua. Felix porta sempre con sé una cartella con testimonianze e prove dei crimini della dittatura, compreso l’assassinio di Ema, destinata al tribunale dell’Aja. La nasconde sotto la giacca, sotto il cuscino dove dorme; ma non riesce a consegnarla. Disperato, pensa anche che è un nonsenso cercare di far condannare tutto il suo Paese. Torna a Vienna, a fine d’anno. La città in festa attende l’arrivo del 2000. Luci, neve, ubriachi. A Felix, stanco e avvilito, spuntano le ali ed egli pensa di essere un semidio. Comincia a correre sulle strade, contromano. Le auto gli sfrecciano ai lati. Sui marciapiedi inciampa contro le vetrine dei negozi, si ferisce, sanguina, ride e continua a correre.
Quando incrocia un ponte sul Danubio, decide di incontrare Ema. «Chi vuole le mie ali?», domanda prima di tuffarsi nell’acqua gelida.
di Sebastiano Grasso
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