Da politicamentecorretto.com del 27 giugno
La scrittura collettiva è un esercizio da laboratorio artigianale, fucina di idee che si compongono su carta e non trovano mai la stessa forma. La seconda prova del collettivo catanzarese Lou Palanca ha degli aspetti stilistici e contenutistici che la rendono originale ed interessante anche rispetto al romanzo d’esordio del combo letterario, “Blocco 52”.
Si può dire, però, che il legame sentimentale tra i due testi (l’ultimo, “Ti ho vista che ridevi”, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2015) sia, in realtà, rilevabile. Come in un immaginario teatro mobile, la scenografia del secondo volume inizia dove finiva quella del primo. Questo nato nella Calabria sospesa tra bracciantato, povertà e sirene fasulle di proletarizzazione industriale, quello che parte da una Calabria ancor meno cittadina e ancor più profonda e arriva sino al Nord del boom economico e, adesso, della coesione delle lotte sociali su temi che nessuno avrebbe immaginato decenni addietro (la dignità dei migranti trasportati in giro per l’Europa, la battaglia per il bene ambientale, la crisi economica dopo anni di crescita gonfiata ed esibita).
“Ti ho vista che ridevi” racconta, nelle sue prime fasi, una storia molto italiana di colonizzazione parimenti inconsapevole e coattiva. Quando le giovani lavoratrici settentrionali del settore agricolo si spostarono verso la città e le offerte dello sfruttamento industriale di manodopera non qualificata (tema largamente presagito dalla Bella Estate di Pavese, e chissà che al gruppo catanzarese non dispiaccia la suggestione), diveniva necessario incanalare la migrazione femminile del Sud a colmare i mestieri e i talami matrimoniali lasciati vuoti.
Un fenomeno ampio, su cui non esistono statistiche numerose, né troppo precise. Un fenomeno di frammenti di storie di Storia. La protagonista -o, più che la protagonista, la forza motrice della fabula- è Dora, personaggio interessantissimo. Sulla carta, è una calabrese giovane, già madre, che è portata al Nord dalla mezzania dei ruffiani per andare in sposa a un contadino. La sua vita si spezza in quell’istante. La rinuncia alla maternità, lo sradicamento mai sostituito da un nuovo inserimento socio-affettivo, la malinconia di quell’Africa in Italia lasciata (quasi) per sempre.
Il suo contraltare è in fondo quel figlio naturale che nella ricerca delle origini biologiche scopre e trova le trame e i temi di una ricerca esistenziale, generazione su generazione (la Dora del Nord, quella obliata dalle storiografie e dalle demografie ufficiali, ha formato una famiglia, una discendenza, nel cuore stanco e malato del Settentrione italiano).
Il volume è più narrativo del precedente, perché maggiori sono i piani narrativi che si intersecano, non più in nome della sincronia, bensì sul profilo diacronico. Ma la scrittura è più asciutta e coesa, il racconto è fatto di parlati e di parlate (idiomi locali, direbbe Fabrizio De André), e anche di paesaggi che cambiano. La desertificazione produttiva e la Calabria ora brulla e secca, ora selvaggia e forte, della metà del secolo scorso. Il pensiero delle “minestre riscaldate sulla stufa” che da Nord a Sud raccontano un Paese drogato da una crescita da cavallo nel decennio del boom, ma senza creare una infrastruttura sostenibile di protezione sociale, che non fosse di promesse, di spese, di arte di sopravvivere.
Sono molte le donne che il lettore trova nelle pagine del libro: ciascuna ha una sua tipicità, racconta il proprio pezzo dello svolgimento della stessa storia. Lo svolgimento della nostra storia.
Se commentando la prova d’esordio del gruppo dei “Palanca”, era plausibile sostenere che il protagonista maschile avrebbe potuto avere i tratti e le tensioni di Volonté, la colonna sonora di “Ti ho vista che ridevi” potrebbe benissimo avere dalla propria parte “Figli di Annibale” e “Black Athena” degli Almamegretta. Cavalcate tribali post-industriali. Il tono perfetto per raccontare l’idillio perduto delle civiltà contadine. E tutte le cicatrici che restano sul corpo del domani.
Di Domenico Bilotti
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