Josip Broz Tito, un dittatore serbo-comunista (Corriere.it)

di Elisa D’Annibale, del 5 Settembre 2023

Vojislav Pavlović

Tito

L’artefice della Jugoslavia comunista

download (1)La vita di Josip Broz, comunemente noto con il nom de bataille, di Tito, è stata intrinsecamente legata alla storia dei Balcani in quanto simbolo e leader indiscusso della Jugoslavia comunista. Ma chi era era questo animoso combattente, spregiudicato politico, egocentrico statista, inaffidabile diplomatico, spesso vincente, però, proprio grazie alla sua indecifrabile tattica di simulazione e dissimulazione? Nonostante tutta una serie di biografie più o meno recenti, la domanda è rimasta inevasa fino alla recente comparsa del volume di Vojislav Pavlović, Tito. L’artefice della Jugoslavia comunista, edito da Rubettino, nella collana «dritto/rovescio» diretta da Eugenio Di Rienzo.

Con Tito, sostiene, Pavlović il problema non è trovare informazioni, fonti o testimoni per ricostruire il corso della sua vita e della sua carriera. La vera sfida consiste nell’individuarne la fisionomia politica e umana frammentata in un labirinto di discorsi, documenti diplomatici e interviste. La difficolta principale non è rappresentata, però, dalla quantità immensa di materiali archivisti disponibili, ma dal fatto che le informazioni su Josip Broz sono spesso contraddittorie e forse ancora più spesso artefatte.

Lo stesso Tito non esitava, qualora lo trovasse conveniente per la costruzione del culto della sua personalità, a seminare dubbi sul suo passato; ad esempio ci sono diverse versioni del suo arrivo alla guida della Savez komunista Jugoslavije (Lega dei Comunisti di Jugoslavia) negli anni Trenta e nelle sue varie dichiarazioni ha persino ricordato date di nascita diverse. Dopo qualche tempo divenne chiaro, conclude Pavlović, che la vita e le azioni di Tito non appartenevano più a Josip Broz. La loro importanza andava ben oltre lui, perché quella vita e quell’azione dovevano essere funzionali all’edificazione del credo jugoslavista. La vita di Tito è stata, infatti, il principale sostegno dell’ideologia jugoslava nella sua versione comunista e serbo-centrica, proponendosi sia come l’ideale da raggiungere sia come il modello da seguire.

Ogni evento, ogni interpretazione, ogni testimonianza che si discostava dalla versione ufficiale venne, infatti, accuratamente cancellata. Ma anche le versioni ufficiali furono di volta in volta adattate alla politica dello Zar di Belgrado, adattandosi,  passo dopo passo, ai suoi tortuosi e disinvolti mutamenti. La biografia ufficiale di Tito divenne una narrazione meramente propagandistica mentre la biografia di Josip Broz si tramutò in segreto di Stato. Il suo Governo, con le decine di collaboratori scelti con cura, in base alla loro canina fedeltà, piuttosto che alla loro competenza, ha custodito la sua immagine ufficiale e si è assicurato che i documenti più compromettenti fossero tenuti lontani da occhi indiscreti in primis da quelli di un biografo non autorizzato. Il risultato è che sappiamo di Tito solo quello che lui e i suoi uomini hanno voluto farci sapere, pur essendo perfettamente consapevoli che la sua esistenza, come ci è stata tramandata, costituisce, per così dire, un falso d’autore.

Il saggio di Pavlović rappresenta, invece, un sintetico ma pregnante ritratto del Primo ministro della Repubblica Socialista della Jugoslavia, molto vicino alla realtà, scritto sulla base di ricerche pluriannuali, per rinvenire documenti in gran parte inediti, nella convinzione che Tito fu e rimase comunista e che fu l’ideologia comunista a dare un significato alla sua vita. Nella fase stalinista della sua vita questa tendenza era del tutto comprensibile per un uomo giovane e ambizioso con scarso bagaglio intellettuale. Come proletario convinto delle magnifiche sorti e progressive del socialismo sovietico, privo di ogni dubbio, e disposto a seguire ogni direttiva del Comintern fu promosso sul campo, su impulso di Mosca, capo della Lega dei Comunisti di Jugoslavia. In seguito, seppe approfittare dell’acuto malcontento dei Serbi e degli Sloveni, schiacciati sotto il tallone di acciaio di Ante Pavelić, Poglavnik dell’autoproclamato Stato indipendente di Croazia, un organismo politico che dal 1941 al 1945 fu uno Stato fantoccio asservito alla Germania nazista. E riuscì a mobilitarli per realizzare il suo progetto rivoluzionario e costruire la sua spietata dittatura.

Non essendo strettamente vincolato da condizionamenti ideologici, Tito, come un camaleonte, seppe adeguarsi a tutti i cambiamenti. Campione del trasformismo fu inizialmente il più fedele seguace di Stalin per poi arrivare alla rottura con l’ospite del Cremlino. Promosse, infatti, un molto cauto processo interno di autogestione, privo di ampio respiro e destinato al fallimento E nel 1955 divenne socio fondatore, insieme a Jawaharlal Nehru e a Nasser del Movimento dei Paesi non Allineati, il blocco geopolitico che durante la Guerra Fredda, intese interporsi tra la Superpotenze russa e statunitense, per dimostrare che il comunismo jugoslavo, pur restando fedele in realtà ai dogmi del «socialismo reale», era diverso da quello di Mosca, anche se per finanziarlo era stato necessario utilizzare i fondi degli «Imperialisti occidentali». Quando tuttavia le riforme economiche e politiche degli anni Sessanta avrebbero potuto portare a una diversa via jugoslava del socialismo, l’ormai anziano Maresciallo operò una rapida contromarcia e stabilizzò con il pugno di ferro il suo potere autocratico basandosi sul Partito comunista e l’apparato poliziesco che riacquistarono tutta la loro onnipotenza.

In definitiva, Josip Broz fu una figura storica di rilievo, ma soprattutto un abilissimo tatticista, incapace però di lasciare un’eredità storica e di dare pace a una «terra di sangue», per usare la terminologia di Timothy Snyder, così tanto martoriata già a partire dalle Guerre balcaniche. A questo riguardo il lascito di Tito non esiste, sostiene Pavlović, perché tutti i conflitti che hanno diviso le diverse etnie jugoslave prima del 1945 si riproposero di nuovo drammaticamente dal marzo 1991 al novembre 2001, appiccando un incendio i cui roghi non si sono ancora spenti e che si erano accesi nuovamente con l’ascesa al potere dell’ex agente del famigerato Commissariato del Popolo per gli Affari Interni creato, il 10 luglio 1934 nel Paese dei Soviet.

La dittatura titina, al suo sorgere, schiacciò, infatti, e a volte operò una vera e propria pulizia etnica contro gli Italiani d’Istria e Dalmazia e le comunità non serbe né slovene che popolavano il defunto Regno dei Karađorđević: Tedeschi etnici e prigionieri della Wehrmacht, Croati, Montenegrini, Bulgaro-Macedoni, Albanesi del Kosovo, Ungheresi, Romeni, Slovacchi, Ruteni della Voivodína. Tutte popolazioni ostili o poco persuase ad accettare per la prima volta, successivamente al 9 maggio 1945, o per la seconda volta, come era accaduto dopo la fine della Grande Guerra, l’egemonia serba che il Generalissimo dell’Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia volle coniugare all’erezione di un regime socialista che, nonostante qualche conato riformista di pura facciata, restò nella sua più intima sostanza sempre rigidamente fedele al modello sovietico.