dall’ Avvenire del 13 febbraio
James Bond a scuola da Popper. E da Gadamer, da Peirce, da Heidegger… Quelli che un tempo si chiamavano servizi segreti e che oggi si preferisce denominare con il termine inglese intelligence – perché sempre meno “segreti” e sempre più “intelligenti” – guardano alla filosofia, soprattutto a quella del Novecento, per trovare le giuste griglie interpretative dei dati di cui vengono in possesso. È un procedimento che si affianca e si accompagna a quello di inquadrare i fatti in un sistema semiotico già approfondito nei giorni scorsi su queste colonne da Maurizio Cecchetti, ragionando attorno al saggio Semiotica dell’investigazione di Eduardo Grillo (Carocci): da un lato abbiamo la definizione della realtà come un complesso, più o meno coerente, di segni da cogliere attraverso una semiotica; dall’altro ci sono i meccanismi della comprensione di questi segni, della loro armonizzazione in una visione d’insieme più ampia e della loro finalizzazione alle esigenze dei “committenti” delle indagini. E questa è ermeneutica, la dottrina dell’interpretazione che è stata uno dei fulcri della riflessione filosofica novecentesca. Quello che viene prodotto dall’in telligence non è una mera raccolta di dati, ma una conoscenza. E di conoscenza – che cos’è, come si raggiunge, quali limiti ha – la filosofia riflette da che mondo è mondo. La scienza ne è in qualche modo debitrice del suo status e del suo metodo, e ha a sua volta costantemente stimolato e instradato, con le sue acquisizioni, l’indagine filosofica. Anche l’ intelligence, lasciato ormai alle spalle il mito – un po’ stereotipato dal cinema e dalla narrativa – dell’agente segreto in impermeabile e occhiali scuri, sta assumendo oggi i contorni di una disciplina scientifica, e come tale si pone in dialettica con la riflessione filosofica. Questo dialogo è quello sviluppato da Dario Antiseri e Adriano Soi nel loro saggio a quattro mani Intelligence e metodo scientifico, in uscita per Rubbettino (pagine 126, euro 12,00), vero e proprio manuale di ermeneutica applicata all’intelligence. Antiseri, filosofo a lungo docente alle università di Roma, Siena, Padova e Luiss, e Soi, prefetto e già direttore della Scuola superiore dell’Amministrazione dell’Interno e dirigente del Dipartimento informazioni per la sicurezza, concludono che «le attività degli operatori dell’intelligence appaiono come un’autentica disciplina scientifica», dando pienamente ragione all’affermazione che Arthur Conan Doyle aveva messo in bocca al suo Sherlock Homes: «Quella dell’investigazione è, o dovrebbe essere, una scienza esatta e, quindi, dovrebbe essere trattata in maniera fredda e distaccata». E intelligence è scienza applicata, con una precisa finalità: «Fornire informazioni al decisore politico, cioè conoscenze». Detto in modo meno asettico, deve elaborare una narrazione che descriva la realtà fornendo un orizzonte di senso a un insieme altrimenti caotico di dati, esperienze, avvenimenti. Questo orizzonte di senso si conquista come ogni ricerca scientifica, cioè attraverso «tentativi di soluzione di problemi attraverso la proposta di ipotesi da sottoporre al più rigoroso controllo sulle loro conseguenze. Controllo che potrà portare o alla smentita dell’ipotesi o alla sua conferma». Si tratta di una costante applicazione del popperiano principio di falsificabilità, della ricerca di sempre nuove conferme all’ipotesi – alla narrazione – sapendo che ognuna la rende più probabile ma mai certamentre al tempo stesso basta un fatto contrario per far cadere interamente l’impalcatura. L’asimmetria logica tra quanto richiesto per una conferma e quanto invece sufficiente per una smentita è evidente, e fonte di turbamento per l’essere umano che concretamente maneggia dati e teorie; il rischio è quello di trascurare gli elementi contrari, o di dar loro meno peso di quello che meriterebbero, enfatizzando invece quelli in armonia con la propria visione. Quello dei pregiudizi è l’inciampo più noto dell’interpretazione, ma al tempo stesso ne è una condizione essenziale: passando da Popper a Heidegger o a Gadamer, Antiseri e Soi indagano le consonanze tra il circolo ermeneutico e la prassi investigativa. Scoprendo che si assomigliano come due gocce d’acqua: «Un abbozzo di interpretazione, così come un progetto di senso, altro non è se non una congettura, un’ipotesi o una teoria secondo la quale il testo dice questo o quest’altro. E non fa differenza che si tratti di un brano della Bibbia, di un papiro, di un’iscrizione greca o latina, o – come accade nella stragrande maggioranza dei casi nell’attività dell’intelligence- della narrazione di un’azione umana».
di Edoardo Castagna
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