Comuni ai margini tra quotidianità e futuro
a cura di Francesco Monaco e Walter Tortorella
Le voci sono quelle di esperti, operatori, studiosi, analisti, rappresentanti di soggetti associativi che hanno voluto raccontare la ricchezza dei nostri territori “lontani” ma anche i loro problemi. In primis la grave condizione di spopolamento che li affligge e che G. C. Blangiardo, nel suo saggio, ha voluto chiamare inverno demografico .
L’altra faccia della luna. Comuni ai margini tra quotidianità e futuro – edito da Rubbettino – è il volume a cura di Francesco Monaco e Walter Tortorella che getta uno sguardo alle condizioni strutturali e organizzative, allo stato ordinario delle finanze, al modo in cui, in un momento di grande crisi, i piccoli paesi hanno comunque continuato a gestire funzioni e servizi per le comunità. Guardando ai tanti interventi realizzati con risorse umane via via sempre più esigue per gli effetti di tagli negli anni passati. Al modo in cui migliaia di Sindaci sono comunque risusciti a tenere botta, continuando con abnegazione a servire i loro cittadini.
Luoghi che, per i curatori di questo volume, non devono essere trascurati dalle politiche di sviluppo nazionali affinché il benessere dei cittadini e la salvaguardia del territorio siano garantiti lungo tutta la Penisola. Trascurare, infatti, tali aree dall’agenda politica, o peggio ancora renderle protagoniste di interventi estemporanei, avrebbe come effetto implicito quello di sostenere una strategia dell’abbandono, estremamente costosa e tutt’altro che neutra nei suoi effetti.
Perimetrare la dimensione territoriale delle marginalità è il primo passo – scrivono nella loro sinossi – una questione di metodo articolata che supera il dualismo aree urbane-aree rurali, o Nord-Sud, ma che invece fa riferimento al grado di accessibilità ai servizi di base, alle dinamiche demografiche, alla vivacità del sistema produttivo, allo stato di salute dei conti finanziari, alla salvaguardia dei territori.
E continuano: la caduta della natalità ha avvolto l’intero Paese in un rigido inverno demografico. Nel 2020, in piena pandemia, l’Italia ha stabilito il nuovo record di 405mila nascite, il dato più basso mai registrato dall’Unità di Italia, inferiore anche ai valori delle due guerre mondiali.
Tale tendenza, insieme alla conquista di una vita più lunga, ha generato effetti sull’incremento della popolazione anziana: gli over64 sono il 23,5% nel 2021, contro il 13,2% di 40 anni fa, con punte prossime al 29% nei comuni fino a 1.000 abitanti. Non è difficile immaginare le conseguenze in termini di squilibri sul sistema del welfare e sul sistema economico. Un sistema economico d’antan caratterizzato ancora da una forte diffusione del primario, in particolare tra i piccoli comuni: basti pensare che in Italia il 60% dei comuni è specializzato nell’agricoltura e nella pesca e tra questi l’80% conta meno di 5.000 residenti. Aree che hanno ricevuto i colpi più duri della crisi del 2007/2008, che hanno cominciato a fatica la ripresa del 2010 e che impattano sull’economia del Paese con una produzione di solo 4,1% del valore aggiunto nazionale. Un 4,1% che però in termini valoriali e di coinvolgimento delle persone che in queste aree vivono e lavorano ha un peso e un significato di gran lunga superiore a quello statistico.
Ulteriori fragilità emergono sul fronte della finanza locale: guardando agli equilibri di bilancio, dei 7.903 comuni italiani il 13,2% è in sofferenza finanziaria. Si tratta di comuni in condizioni di dissesto o predissesto, o con un disavanzo superiore al 30% delle entrate correnti, o che hanno accantonato nel bilancio di previsione 2020 risorse al Fondo crediti di dubbia esigibilità per un importo superiore al 15% delle entrate correnti accertate nel 2019. Una boccata d’aria potrebbe provenire dal PNRR che ha come effetto l’espansione della spesa in conto capitale, ma che potrebbe generare un’ulteriore polarizzazione dovuta alla diversa capacità amministrativa di progettare e realizzare.
Infine, la crisi ambientale intesa come il venir meno in tempi rapidi delle condizioni di esistenza della specie umana, che si sostanzia in crisi climatica, inquinamento e riduzione della biodiversità ecosistemica, i cui rimedi non sono di diretta competenza dei comuni. In sintesi: i comuni subiscono gli effetti della crisi ambientale, ma per poter agire spesso devono rivolgersi a organismi tecnici sovraordinati di natura pubblica. Cosa succede con i servizi ambientali dei comuni delle aree marginali? Le piccole dimensioni e la tendenza a comprimere il numero di addetti della pubblica amministrazione hanno progressivamente svuotato i comuni delle competenze “hard” ossia quelle che comportano la gestione di grandi infrastrutture: servizio idrico integrato, raccolta dei rifiuti e fornitura di energia sono da tempo in mano ad utility, che agiscono con grande autonomia gestionale e finanziaria nonostante il controllo dei comuni con la maggioranza delle azioni.
Come agire quindi sulle aree più deboli e periferiche? Ai due approcci prevalenti in ambito accademico e di policy, uno di abbandono secondo una logica di efficienza e liberismo e l’altro di sostegno in favore di uno sviluppo economico sostenibile e sostenuto, il volume suggerisce una terza via. Una via intermedia che si concretizzi in un’alleanza, con il centro che, per le forniture di servizi, supporti e sussidi la periferia e con le aree remote e periferiche che non siano sola ricchezza lenta e preziosa di chi vi risiede, ma un patrimonio collettivo nazionale e/o regionale. Oltre a questo, risulta fondamentale un ripensamento della fornitura dei servizi, che dovrà essere unificata o coordinata per tutti i micro-comuni vicini e accessibili tra loro. In ultimo, la necessità di integrare le politiche ai diversi livelli di governo, con l’obiettivo di sviluppare le complementarietà presenti o potenziali tra i comuni delle aree marginali e centrali.
Si tratta di sfide epocali che andranno a definire l’identità territoriale del Paese nei prossimi decenni. Una delle ricchezze riconosciute dell’Italia consiste infatti nella presenza di varietà e diversità non solo ambientale ma sociale, culturale e antropologica, che sarebbe un peccato perdere di fronte a meccanismi spontanei globalizzati che spingono verso l’omologazione. L’obiettivo è mantenere le diversità e rendere possibile a tutti i cittadini di godere delle specificità ed unicità presenti sul territorio nazionale.
Per capire come questi Comuni che non contano si presentino alla sfida della ricostruzione post-pandemica, abbiamo rivolto alcune domande a Francesco Monaco: Capo Dipartimento Supporto ai Comuni e Studi politiche europee della Fondazione IFEL. È responsabile del Progetto ANCI-IFEL SiBater-Banca della Terra. Dal 2007 al 2020 è stato responsabile tecnico della politica di coesione territoriale dell’ANCI. Da maggio 2020 a marzo 2021 è stato consigliere del Ministro per il Sud e la coesione territoriale e coordinatore nazionale del Comitato tecnico nazionale “aree interne”. Docente al Master URBAM-Governo del territorio dell’Università “La Sapienza” di Roma. Tra le sue pubblicazioni: La voce dei Sindaci delle aree interne, con S. Lucatelli, Rubbettino, 2018 e L’associazionismo Intercomunale nelle aree interne, con C. Fusco e G. Xilo, Collana Formez, 2019.
Siamo davanti ad un’occasione storica, da non mancare: è da questa esigenza che nasce il volume curato insieme all’economista Walter Tortorella?
«Lavoriamo su questi temi da diverso tempo e abbiamo voluto fare una sorta di bilancio, anche se l’obiettivo principale è quello di aprire un cono di luce su questa specifica tipologia di comuni, parte di un insieme di aree marginali, fragili, piccole, interne dell’Italia o periferie di centralità. Non ci sono però indicazioni esplicite sulle politiche pubbliche che sono in essere in questo momento nel Paese che si trova ad avere opportunità e risorse da utilizzare per riportare il territorio nazionale su un sentiero di crescita e superare problemi come la disparità territoriale, i tempi della giustizia sociale, le transizioni – su ambiente, energia, tecnologia – che bisogna compiere, tutte criticità che con l’emergenza Covid sono emerse in maniera molto forte. Di contro si corre anche il rischio che questo processo di sviluppo venga interrotto o che gli investimenti siano indirizzati nella maniera meno giusta e corretta rispetto alle esigenze. Così abbiamo voluto chiamare a raccolta questi co-autori che nel corso degli anni ci hanno accompagnati e hanno condiviso con noi l’impegno quotidiano, puntando l’attenzione prima di tutto sullo spopolamento, caratteristica fondante che accomuna tutti i paesi di queste aree».
Provate a dare anche un’interpretazione più ampia della marginalità…
«Abbiamo scelto di partire dalle categorie in uso, quindi ci siamo riferiti alla Strategia Nazionale Aree Interne che ha segnato due momenti importanti nelle politiche pubbliche. Il primo è l’attenzione sulla qualità dei servizi di cittadinanza, l’altro è nel metodo che ha escluso, fin dall’inizio della sperimentazione, l’utilizzo di bandi competitivi, optando per un approccio partecipativo, di ascolto. Dalla SNAI abbiamo appreso che bisogna indagare a fondo tutte le forme di marginalità, che non coincidono necessariamente con il piccolo comune delle aree interne. Per noi possono essere anche le campagne non più coltivate, i fondovalle impoveriti, alcune città medie che hanno perso le proprie funzioni, come le aree costiere abbandonate o quelle deindustrializzate. Concettualmente abbiamo provato ad allargare il campo per una migliore definizione di marginalità, più ampia e completa. Definito lo scenario, siamo partiti con il racconto collettivo, sulla base delle singole esperienze, che hanno fatto emergere punti di vista differenti su molti temi».
Passiamo un attimo dalle politiche pubbliche in corso, alle elezioni del 25 settembre che avranno inevitabilmente un peso sugli interventi indirizzati a questi territori: che scenario si prospetta?
«C’è un problema di potere e anche di rappresentanza nelle aree marginali. Se volessimo utilizzare una definizione diremmo che questi sono territori che non hanno un peso decisionale, anche perché le politiche sono sempre costruite a partire da un modello urbano. L’auspicio è che con il nuovo Parlamento siano equamente rappresentati, che abbiano voce. Una voce non residuale, che non chieda sussidi compensativi. E spero che i partiti si predispongano a candidare figure con un’esperienza reale sui territori, capaci di esprimere una domanda finalizzata a costruire condizioni di contesto, soprattutto per superare questa mancanza di respiro strategico e programmatico nelle azioni messe in campo, che non tengono conto delle energie e della vitalità espresse da questi Comuni che oggi devono essere rappresentati per quello che sono, con l’obiettivo di porre al centro i bisogni e i desideri di ciascun territorio, affidandoli alla cura e alla responsabilità delle istituzioni e delle comunità locali. Se si avvererà non possiamo dirlo, sappiamo però che si lavora su idee, contributi e proposte in cui si chiede non solo rappresentanza, ma la realizzazione di politiche place based».
Si fanno passi avanti, si incontrano limiti e vincoli, ma si finisce per tornare indietro: come si può evitare che le esperienze variamente documentate nei comuni ai margini siano escluse dalle politiche territoriali?
«Per rendere veri ed effettivi tutti questi progetti e percorsi che stiamo raccontando, è necessario dare spazio alle autorità locali, perché è una questione di democrazia, il punto di partenza sono i sindaci, le amministrazioni, i Comuni. Continuando a discutere di metodo, il centro dovrebbe operare affinché queste strutture fossero rafforzate, spingendo i sindaci a lavorare in un’ottica di sistema territoriale, non come singola unità amministrativa. Purtroppo se non si riesce in questo la strada si interromperà e avranno vinto i localismi. La necessità oggi è una classe dirigente innovativa in grado di dare voce e potere a questi territori, sarà difficilissimo farla emergere e ancor di più garantire un cursus honorum politico e amministrativo per le persone più capaci di realizzare progetti con i territori, raggiungendo risultati concreti. È noto che in molte di queste aree la leadership sia costituita da poteri tradizionali consolidati e questo non permette di riconoscere valore alle azioni che puntano verso al ripresa, verso un nuovo riconoscimento. Quando riusciremo ad assicurare un ricambio sui territori e una crescita delle ambizioni e delle aspirazioni, avremo preso la giusta direzione per vincere la sfida a cui siamo chiamati».