Guido Giarelli è un professore universitario e saggista. Insegna Sociologia generale presso la Scuola di Medicina e Chirurgia dell’Università “Magna Græcia” di Catanzaro ed è direttore del Master di II livello in “Medicina integrata” presso la stessa facoltà. Nel suo ultimo lavoro, Sofferenza e condizione umana. Per una sociologia del negativo nella società globalizzata, analizza le cause e le conseguenze di un malessere sociale che si sta sempre più diffondendo col progredire delle condizioni di vita, di relazioni interpersonali e di gestione del lavoro nella contemporaneità. Un saggio ben argomentato e adatto anche al lettore meno esperto, che cerca di porre le basi per una sociologia della sofferenza e del negativo, e di far riflettere sul percorso che l’uomo, la società e la scienza hanno intrapreso dal XIX secolo ai giorni nostri. A cura di Antonella Quaglia
«Nel suo saggio Sofferenza e condizione umana. Per una sociologia del negativo nella società globalizzata parla di quattro tipi di sofferenza generati dalle dinamiche sociali e individuali emerse nelle realtà industriali e post industriali: sofferenza ecologica, sociale, biopsichica ed esistenziale. Vuole parlarcene brevemente così da dare un quadro degli argomenti che i lettori troveranno nel suo lavoro?».
Nel mio lavoro cerco anzitutto di individuare una fenomenologia dei diversi tipi di sofferenza nella società globalizzata che abbia un valore euristico, ci consenta cioè di comprendere scientificamente le cause all’origine delle diverse forme di sofferenza, per poter capire come affrontarle e in che misura esse possono essere eliminabili, riducibili o prevenibili. Così, ad esempio, la sofferenza sociale è quella originata dal sistema sociale capitalistico attuale, dal suo funzionamento indifferente alla dignità delle persone con l’alienazione che ne consegue e dalle sue disuguaglianze di genere, etnia, reddito, prestigio sociale: essa è in gran parte eliminabile, riducibile e prevenibile, stante la volontà collettiva di farlo avviando processi di trasformazione radicali. Lo è assai meno, invece, la sofferenza esistenziale, che nasce dall’impossibilità di una razionalizzazione sociale e culturale totale, dall’incapacità di conferire un senso assoluto all’esistenza, a quella “infinità priva di senso dell’accadere del mondo”, per dirla con Weber, che la cultura cerca di colmare con le sue credenze, norme e valori senza mai riuscirvi completamente. La sofferenza biopsichica è invece espressione dei limiti della nostra natura interna biopsichica di organismi viventi, di unità inscindibili di mente e corpo: limiti in parte superabili con il miglioramento dell’aspettativa di vita, della qualità del processo d’invecchiamento e della prevenzione delle malattie, ma che trovano comunque nel permanere della malattia fisica e psichica, del dolore, della disabilità e della morte i propri confini invalicabili. Infine, la sofferenza ecologica è quella che caratterizza in maniera più evidente la società contemporanea che, illudendosi di poter trattare l’ambiente e la natura come puri oggetti da sfruttare e da distruggere a piacimento, oggi si ritrova a dover pagare un conto salato in termini di effetto serra, inquinamento, mutamenti climatici, buco nell’ozono, esaurimento delle risorse quali conseguenze perverse ed impreviste del proprio sconsiderato dominio tecnologico. Come ben sappiamo, anche se qualcuno tra i potenti del mondo si ostina ancora a negarlo, abbiamo ancora un minimo margine per poter evitare la catastrofe con le sofferenze ancora maggiori che questa comporterebbe.
«Lei si occupa principalmente di medicina e sociologia. Che letture consiglia a chi ha apprezzato il suo saggio e intende approfondire gli argomenti trattati?».
I sei autori che affronto e rileggo per sviluppare la mia analisi della fenomenologia della sofferenza – Marx, Durkheim, Weber, Jonas, Zola e Archer – possono essere tutti assai utili per affrontare questi temi: in particolare, per chi fosse più interessato ad approfondire la sofferenza sociale, consiglierei di leggere Marx e Durkheim, autori classici ancora di grande attualità; per chi volesse comprendere meglio la sofferenza esistenziale, le pagine di Weber e della Archer restano magistrali; Zola ci aiuta a comprendere profondamente la nostra sofferenza biopsichica a partire dalla sua condizione di disabile; e Jonas non può non sorprenderci per l’anticipo e la lucidità con cui ha intravisto e affrontato il problema della sofferenza ecologica.
«L’analisi della dimensione del negativo è una parte importante del suo lavoro. L’interpretazione di ciò che per l’uomo è da paragonarsi al male, al dolore, alla malattia e alla morte è rivista alla luce di un percorso sociologico che considera il negativo come un fattore connaturato nell’esistenza umana, e un elemento necessario per la salvaguardia della propria umanità. Ci si interroga se la vulnerabilità della vita sia davvero un ostacolo o invece non sia fonte di consapevolezza e di azione positiva, se la sofferenza sia davvero sempre inutile, e, soprattutto, se la corsa a una medicalizzazione della vita sempre più frenetica non stia solo causando altri tipi di malessere. In una società in cui il dolore e la diversità tendono a essere combattuti e occultati, come può la sociologia aiutare a trovare un bilanciamento tra ciò che si può migliorare e ciò che dovrebbe rimanere intatto, perché semplicemente parte del nostro essere umani?».
La dimensione del negativo costituisce un concetto centrale del mio lavoro e l’elemento-chiave con cui analizzo il problema della sofferenza per cercare di evitare il rischio di un’ottica puramente moralistica, da cui mi pare non sia esente la sia pur scarsissima letteratura sociologica anglosassone sull’argomento. Se comprendiamo che non esiste soltanto una dimensione positiva costituita da quella che noi sociologi chiamiamo “agency”, ovvero la nostra capacità di agire, la nostra potenza di trasformazione di noi stessi e del mondo, ma anche una dimensione opposta ma complementare, non ontologicamente diversa ma intrinseca alla stessa, medesima condizione umana (per cui è inutile ricercarne l’origine in altri mondi soprannaturali), rappresentata dalla “im-potenza”, dalla “in-azione” o “non-azione” dovuta ai limiti esistenziali, sociali, biopsichici ed ecologici con cui dobbiamo imparare a fare i conti quotidianamente nella nostra vita, allora credo che trovare un bilanciamento tra queste due polarità costitutive dell’ambivalenza della nostra condizione umana possa costituire un esercizio indubbiamente complesso ma praticabile sulla base di questa “cultura del limite” che tutte le società hanno da sempre sviluppato e che anche la nostra dovrebbe tornare a riscoprire.
«Alla luce di quanto letto nel suo saggio, secondo lei è possibile “utilizzare” le sofferenze che tormentano la maggior parte degli uomini della contemporaneità per riflettere e prendere maggiore consapevolezza del percorso esistenziale e sociale intrapreso, e dei rischi legati ad esso? Secondo lei è possibile (e auspicabile) imparare dalla sofferenza invece di cercare solo di eliminarla dalla nostra vita?».
Nella prospettiva appena indicata, indubbiamente sì, nella misura in cui tale esercizio può consentirci di acquisire una maggiore consapevolezza di noi stessi e del nostro posto nel mondo quale specie vivente non semplicemente destinata al suo dominio tecnologico ma a convivere con le altre specie viventi in una logica ecosistemica di sostenibilità futura. È tempo di dismettere ogni illusione sulle possibilità di un progresso illimitato, di uno sviluppo illimitato e, conseguentemente, prendere coscienza della impossibilità di eliminare totalmente la sofferenza, così come la malattia, la disabilità e la morte dalle nostre vite: chi afferma il contrario non rende un buon servizio all’umanità e al suo futuro.
«È molto interessante il discorso che riprende da Max Weber sulla “gabbia d’acciaio” che l’uomo si è auto costruito dai tempi della nascita del capitalismo moderno: una gabbia forgiata attraverso la razionalizzazione del lavoro e la burocratizzazione, e che ha portato a una frattura forse insanabile tra il sistema sociale e il mondo vitale. Anche la comunicazione virtuale ha acuito questa alienazione, operando una spersonalizzazione e comportando una perdita della profondità di pensiero. Come si può intervenire su questa crisi di senso nella società digitale?».
La rivoluzione antropologica in atto con i cosiddetti “nativi digitali” evidenzia come le tecnologie non siano mai neutrali, in quanto comportano una modificazione prima dei comportamenti funzionali al loro utilizzo e poi delle forme di pensiero con cui affrontiamo la realtà. La perdita di profondità di pensiero, la “superficializzazione” della coscienza operata dalla connessione più o meno permanente tramite lo smartphone con i social media è la conseguenza più evidente della perdita di interiorità, ossia della capacità di riflessione con se stessi, di “conversazione interiore” per dirla con la Archer che sempre più caratterizza chi scambia la realtà effettiva con la realtà virtuale. È così che viene meno questa grande conquista dell’uomo moderno a partire dal Rinascimento: la dimensione interiore come autoriflessività del Sé, e l’intimità quale sua componente più profonda e privata. Non credo possa esservi altra via per recuperare questa dimensione che un uso più limitato e consapevole delle tecnologie digitali e la (ri)scoperta, ad esempio, della valenza educativa della lettura da una parte e del contatto personale faccia a faccia nella comunicazione dall’altra.
«Quali sfide attendono la disciplina della sociologia per spiegare la condizione umana in questi anni caotici dettati da violenze, dolore e solitudine?».
Ritengo che la sfida fondamentale per la sociologia del XXI secolo sia costituita dalla necessità di superare la storica frattura cartesiana mente/corpo e la conseguente scissione tra le “due culture” umanistica e scientifica per poter contribuire a fondare un nuovo umanesimo su base scientifica in grado di offrire una comprensione più approfondita della condizione umana nell’era della globalizzazione, in cui tale condizione appare sempre più unitaria, al di là di ogni apparente differenza di razza (che non esiste), di sesso, etnia e cultura (che esistono ma non sono insuperabili).
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