Da L’Unità del 10 novembre
È ormai un’evidenza scientifica che le emissioni di gas serra prodotte dalle attività umane stiano cambiando l’atmosfera terrestre e influenzando il clima dell’intero pianeta. Se a Parigi tra meno di un mese non verranno intraprese rapidamente azioni di mitigazione, è sempre più probabile che si verifichino sconvolgimenti non solo nei sistemi fisici ed ecologici della Terra, ma anche negli equilibri sociali ed economici di gran parte delle nazioni investite dal cambiamento climatico. Su questi temi lavora da anni Carlo Barbante, direttore dell’Istituto per la Dinamica dei Processi Ambientali del CNR e docente all’Università di Venezia dove si occupa da anni di ricostruzioni climatiche attraverso la raccolta e lo studio delle cosiddette “carote di ghiaccio’: i campioni prelevati in profondità dai ghiacciai e dalle calotte polari che possono raccontarci i cambiamenti del clima nel corso dei decenni del passato.
I ghiacciai perenni sono sotto osservazione e sono parametri per misurare gli effetti del global warming. Qual è la situazione oggi?
«Dagli studi scientifici più recenti e riportati anche nel quinto rapporto dell’Intergovernamental Panel on Climate Change (IPCC), si evince chiaramente come negli ultimi decenni i ghiacciai dell’Alaska, dell’Artico Canadese, delle Ande, dell’Asia e delle aree costiere della Groenlandia abbiano contribuito in modo importante alla perdita complessiva di massa dei ghiacciai del globo».
Quali sono le cause?
«Esistono tre fattori principali che influenzano l’aumento o la perdita di massa delle calotte polari: la quantità di neve che cade annualmente e che con il tempo si trasforma in ghiaccio; la quantità di neve e ghiaccio che si fonde in superficie e la massa di ghiaccio che viene allontanata a causa del distacco degli iceberg ai margini della calotta glaciale. I primi due fattori contribuíscono al cosiddetto bilancio di massa superficiale. Per una calotta glaciale in condizioni stabili, la quantità di acqua sottratta sotto forma di iceberg o di fusione è uguale alla quantità di ghiaccio che si accumula nella superficie e quindi le condizioni rimangono stazionarie. Se per qualche motivo questo equilibrio si rompe e quindi la calotta perde più di quel che guadagna, allora comincia e ritirarsi. Per l’oceano è come se qualcuno avesse aperto un rubinetto e aggiunto acqua in un bicchiere: tutta questa nuova acqua fa alzare il livello del mare».
Ci sono già variazioni misurate della massa totale del ghiaccio?
«Nelle condizioni attuali, tenendo conto del rapido riscaldamento dell’Artico, e grazie alle osservazioni sul campo e mediante satellite, si può dire che la calotta glaciale groenlandese stia perdendo massa da alcuni decenni. Le perdite sono state abbastanza uniformi su tutta la Groenlandia e maggiormente accentuate nella parte meridionale e occidentale. La velocità con cui queste perdite sono avvenute è considerevolmente aumentata sin dal 1992, passando da un valor medio di 34 miliardi di tonnellate all’anno nel periodo che va dal 1992 al 2001 a circa 215 miliardi di tonnellate all’anno per il periodo che va dal 2002 al 2011. È proprio l’aumento di velocità nella perdita di massa che preoccupa maggiormente».
Dal livello dei ghiacciai della Groenlandia si possono fare valutazioni degli effetti dei cambiamenti climatici?
«La combinazione di misure sul campo, condotte da decenni dagli scienziati di tutto il mondo in Groenlandia, e delle indagini da satellite o da aereo indicano chiaramente che il bilancio di massa è di segno rosso e che anno dopo anno la calotta polare groenlandese si va assottigliando. La perdita di massa si riflette naturalmente in un innalzamento del livello medio del mare. Abbiamo visto che dal 1991 al 2001 la Groenlandia ha perso in media circa 34 miliardi di tonnellate all’anno il che si riflette in un contributo all’innalzamento del livello medio del mare di circa 0.09 millimetri all’anno che aumenta a 0.59 millimetri all’anno nel periodo che va dal 2002 al 2011».
E qual è la situazione nelle Alpi in Italia?
«Praticamente tutti i ghiacciai dell’arco alpino sono in ritiro e il ritmo di ritiro è molto aumentato negli ultimi due decenni. Di questo passo, è chiaro che nel corso dei prossimi decenni, assisteremo a una forte riduzione di molti ghiacciai italiani, a partire da quelli delle Dolomiti».
di Francesca Santolini
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