Da Il Giornale del 4 marzo
E Lo Stato deve ridurre al minimo il perimetro della sua azione e lasciare al privato quei servizi che il mercato è in grado di rendere più efficienti. Compresa la gestione della pubblica amministrazione. Massimo Blasoni è un imprenditore di prima generazione, ha dato vita al centro studi ImpresaLavoro e con il libro Privatizziamo! (Rubbettino, 184 pagine, 12 euro) avanza una proposta di riforma radicale.
C’ancora spazio per idee come la sua?
«Privatizzare è l’unica via per ridurre l’assurdo carico fiscale. Negli anni Settanta la pressione fiscale in Italia era il 22 per cento del Pil, oggi supera il 42,6 per cento e questo è il risultato di un continuo ampliamento del perimetro dello Stato».
A cosa è servito l’aumento della spesa pubblica?
«A creare una burocrazia sempre più invadente che rende difficile il lavoro degli imprenditori. Per fare degli esempi, in Italia per una concessione edilizia bisogna aspettare 227 giorni contro i 96 della Germania e i 105 del Regno Unito. Se fossero privatizzati gli uffici tecnici del Comune e fosse un gruppo di professionisti associati a gestire le concessioni, con remunerazioni legate alla celerità delle risposte, i tempi sarebbero altri. Forse nessun cittadino e imprenditore si sentirebbe rispondere dietro lo sportello, che il funzionario non c’è, che bisogna ripassare dopo le ferie. Secondo me nessuno si scandalizzerebbe nemmeno se fosse esternalizzata l’anagrafe».
Lei propone di privatizzare funzioni della pubblica amministrazione. È un’idea radicale…
«Il libro si chiama Privatizziamo! Ma non propone solo privatizzazioni di aziende pubbliche. Bisogna essere coscienti che l’organizzazione sociale che conosciamo non è l’unica possibile, siamo solo abituati a pensarlo. Il fatto che uffici pubblici, scuola, sanità, pensioni e acqua siano attività gestite direttamente dallo Stato non è il frutto di un ordine necessario».
L’obiezione che i servizi pubblici perché devono restare a disposizione di tutti…
«A questa obiezione rispondo con i dati delle tariffe telefoniche. Dopo la privatizzazione, in 10 anni, solo calate dell’ 11,5%, mentre quelle dell’acqua, che è ancora pubblica, sono aumentate del 78,6%. Nel pubblico ci sono costi che il privato non deve sostenere. Poca efficienza, intermediazione politica. Oggi un sindaco fa fatica a decidere. Nel Comune privatizzato, fatti salvi i compiti istituzionali e politici, un primo cittadino potrebbe comportarsi come un imprenditore che premia il merito, assume e licenzia. Tutto questo a beneficio del cittadino».
Ci sono servizi che devono essere comunque garantiti?
«Ci sono funzioni che deve svolgere direttamente lo Stato. La difesa interna ed esterna, la magistratura. Poi ci sono servizi che devono essere completamente liberalizzati con conseguente riduzione delle tasse a carico del cittadino. Sono quelli pubblici, ma che riceviamo in proporzione a quanto paghiamo. È il caso delle pensioni. L’Inps ha avuto uno sbilancio di oltre 12 miliardi l’anno scorso. Perché non lasciare ai cittadini il miglior gestore possibile dei propri denari?».
E i servizi garantiti?
«Sono quelli per i quali riteniamo non ci debba essere proporzionalità tra quanto diamo e quanto riceviamo. La sanità ad esempio. Deve restare pubblica e finanziata dai contribuenti. Un modello solidale che non significa gestione pubblica. Chiariamoci, non immagino una sanità all’americana, con cittadini più abbienti privilegiati perché possono permettersi un’assicurazione migliore. Nel libro si propone che lo Stato acquisti sul mercato, quindi in regime di concorrenza, beni e servizi da offrire ai contribuenti. La differenza è che quei servizi sarebbero gestiti molto meglio».
Il centrodestra ancora sensibile a proposte liberali come la sua?
«Occorre una politica con più competenze, ma meno professionale e questo non può che realizzarlo il centro destra, riprendendo in mano le tesi di una vera rivoluzione liberale. I segnali che arrivano dal governo Renzi non sono certo di una riduzione del peso dello Stato. Il mondo intorno a noi è ben più competitivo che solidale, dunque per rilanciare il nostro Paese servono misure radicali: i posti di lavoro non si creano per decreto, ma favorendo un’economia che funziona. Con meno Stato e più privato».
di Antonio Signorini
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