da filmedvd.dvd.it del 7 Dicembre
Fino a che punto il cinema può farsi giustizia del sistema? Se la legge in Italia non funziona, il cinema ha dimostrato al contrario di poter lasciare un segno sul malcostume dilagante o perlomeno di lanciare degli interrogativi piuttosto pesanti e fondati. Un malcostume entro il quale le bagarre giudiziarie hanno trovato pane per i loro denti, facendosi strada dentro un altro genere, quello del riso, del lazzo di genere, fortunatamente non sempre fine a se stesso. Nel libro “In nome della legge – La giustizia nel cinema italiano”, edito da Rubbettino, Guido Vitiello, con la collaborazione di altri studiosi di cinema, ripercorre le tappe di un genere a sé stante come quello del filone processuale, in Italia abbinato troppo spesso alla commedia di costume che con il tempo si è fatta più cinica e disincantata, seriosa, problematicamente attuale, persino tragica a volte, quando aggrappata a fatti di cronaca o alla storia (il recente recupero del genere con “Romanzo di una strage”).
Da Steno (“Un giorno in pretura”) a Luigi Zampa (“Il magistrato”), dal primo Pietro Germi al Francesco Rosi dei primi capolavori (“Salvatore Giuliano”, “Le mani sulla città”), fino alla carriera di Damiano Damiani, attraversata dal filone in maniera esemplare (su tutti “Confessione di un commissario di polizia al procuratore della Repubblica”, “L’istruttoria è chiusa: dimentichi” e in filigrana “Perché si uccide un magistrato”). Ma è nei capolavori “In nome del popolo italiano” e “Detenuto in attesa di giudizio” che l’analisi si estende in un capitolo approfondito su due film che guardano oltre la crisi del tempo per tracciare un percorso ricco di figli e figliastri. Nonostante questo, in Italia il tema della giustizia, pur essendo frequente, non ha mai assunto la nomea di vero e proprio genere come è successo al contrario nel cinema americano.
Nelle produzioni hollywoodiane, infatti, la dialettica fra inquisitore e inquisito, proprio per la natura del sistema di giustizia, è portata il più delle volte a livelli tali di spettacolarizzazione da rendere tale filone un vero e proprio sottogenere denominato “courtroom drama” o più comunemente “legal thriller”; basti pensare ad alcuni titoli degni di nota, come ad esempio “La parola ai giurati”, “Anatomia di un omicidio”, in parte “Kramer contro Kramer”, dove il processo assume un valore determinante per l’epilogo del film e per il pathos che al culmine riesce a creare, o l’avvincente “Codice d’onore”.
Dove invece la denuncia andrebbe rivalutata è nel sottogenere del “poliziottesco” anni ’70, che apre il suo giro di battenti con “La polizia ringrazia” di Steno del 1972, anche se il precursore fu sicuramente Carlo Lizzani con “Banditi a Milano” nel 1968. Boicottati o pesantemente criticati dalla critica del periodo, i poliziotteschi, dietro la ruvidezza dello stile che li facevano scalare a dei prodotti di basso rango pseudo-fascisti nonché reazionari, mostravano in maniera nuda e cruda (e con stile, questo c’è da ammetterlo, nonostante qualche grevità) l’Italia violenta senza sconti, in tutta la sua brutalità.
Il saggio conclude la propria analisi con un capitolo sulle serie televisive e un altro sui talk-show politici delle televisioni italiane. Si fa riferimento al primo grande telefilm giudiziale giunto sui nostri schermi nel lontano 1959, “Perry Mason”, dove la giustizia trionfava sempre mettendo d’amore e d’accordo tutti, cosa del tutto irreale e che mirava a rassicurare in un’epoca di benessere accecante e per questo fuorviante. Con il tempo, invece, la fiction della Tv italiana ha cercato di affrontare certi temi in maniera più seria (come non pensare a “La Piovra”, negli anni ’80, sempre di Damiano Damiani?), e vale lo stesso per i numerosi esempi di serie-tv “legal drama” d’oltreoceano.
Forse con il tempo lo spettacolo americano ha fatto breccia più sui talk-show, che dallo scandalo di Mani Pulite del 1992 hanno invaso le nostre case, rendendoci partecipi di una lotta politica istituzionale fra duellanti di bassa lega per i quali l’unico interesse reale è quello di occupare più a lungo possibile quella poltrona che persino in trasmissione, luogo che dovrebbe essere deputato a denuncia della stortura, gli è consegnata con una disinvoltura tale da indurre a pensare ad un complotto totale del sistema sui cittadini. Nel frattempo continuiamo a pagare le tasse e non solo, a volte anche l’anima che sembra staccarsi dal corpo e andare a farsi un giro chissà dove, di fronte a cotanta dimostrazione di volgarità spicciola e false promesse, mai realmente mantenute. Ma ha ancora senso parlare di politica e quindi di giustizia?
di Federico Mattioni
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