L’accostamento tra ribellione e imprese descrive solo apparentemente un atto contro natura. In realtà il malcontento della classe imprenditoriale, esploso nel pieno dell’era populista, ha radici antiche e ben radicate. Ed è da questo assunto che parte l’analisi a cui Francesco Delzio, manager, scrittore, docente universitario, executive vice president del Gruppo Atlantia, dedica il suo nuovo saggio intitolato proprio “La ribellione delle imprese” (Rubbettino).
Nel suo pamphlet agile e ricco di chiavi di lettura intriganti, Delzio descrive il contesto sfavorevole in cui oggi si trovano ad operare le imprese, specialmente quelle medio piccole del Nord, da sempre motore trainante dell’industria manifatturiera italiana. Uno scenario in cui il calo della domanda interna, il trionfo dell’incompetenza e la perdita del valore del lavoro con conseguente prevalenza della rendita sulla produzione, rendono l’imprenditore, una volta forte di uno status superiore, sempre più emarginato. Secondo Delzio, infatti, la percezione collettiva relativa a chi fa impresa è drasticamente peggiorata, come testimonia il parallelo mutamento lessicale per cui l’imprenditore diventa, nel gergo populista, “prenditore”. Una sillaba in meno, che però cambia tutto, palesando la diffidenza verso la produzione di ricchezza, non più collegata indissolubilmente a quella del lavoro. Un’ostilità maturata nel tempo, alimentata dalla guerra anti-casta e dalla crescente denigrazione delle élite, e che ha trovato sponda nelle scelte economiche del governo gialloverde, che con reddito di cittadinanza e quota 100 ha fatto prevalere la cultura della garanzia rispetto a quella dello sviluppo.
Certo, anche la classe imprenditoriale non è esente da responsabilità: scarsa propensione al rischio, indole familistico-padronale, oltre al falso mito del “piccolo è bello” e all’enorme questione del passaggio generazionale che vedrà coinvolte circa il 20% delle nostre imprese manifatturiere italiane nei prossimi anni. Questioni vere, su cui si misurerà il futuro del nostro tessuto produttivo, che non hanno ancora intaccato la forte domanda di Italia dall’estero – unica vera strada per sopravvivere alla stagnazione del mercato interno – che, secondo Delzio, va accompagnata con un nuovo storytelling incentrato sulla capacità di produrre italiana, indispensabile per poter conquistare i mercati mondiali, specie quelli mass market.
Ma un paese come l’Italia, seconda industria manifatturiera europea, non può tollerare a lungo un declino in cui alla crescita dello zero virgola si somma una profonda crisi demografica, colpevolmente sottaciuta da media e opinione pubblica. Ragioni concrete che, per Delzio, potrebbero indurre gli imprenditori a “scendere in piazza” – come sembra lontano il tempo in cui si “scendeva in campo”! – per essere protagonisti di un nuovo autunno caldo, in cui il loro malcontento potrebbe addirittura convergere con quello dei lavoratori. Infatti, la progressiva strategia di disintermediazione e il conseguente accantonamento dei corpi sociali intermedi hanno reso le istanze di imprenditori e lavoratori, e quindi confederazioni associative dei primi e sindacati che rappresentano i secondi, paradossalmente più vicine. Con il risultato di una convergenza possibile (e per molti auspicabile) non solo sulle forme di “sostituzione della politica” – per esempio attraverso strategie di welfare aziendali – ma anche sul fronte della protesta e della difesa comune della produzione e del lavoro.
È dunque da leggere in questa chiave la provocazione – sacrosanta – di Delzio sull’ipotesi di uno sciopero congiunto imprenditori-lavoratori e sull’identificazione in Maurizio Landini – nonostante la distanza rispetto alla radicalizzazione di alcune sue posizioni – nell’uomo potenzialmente in grado di dar voce a questo malcontento comune. D’altra parte, le avvisaglie di sommossa ci sono già state, dalla manifestazione pro Tav a Torino alla relazione di Carlo Bonomi in Assolombarda, fino alle numerose prese di posizioni di molte componenti di Confindustria. Un crescendo di prese di distanza dalle politiche economiche del governo così esplicito da far persino ipotizzare una concretizzazione politica in quello che Terza Repubblica ha definito “il partito che non c’è”.
Ora, però, le imprese si aspettano un deciso cambio di strategia economica, per esempio con quella scossa fiscale che fino ad ora è rimasta solo propaganda e di cui non si intravedono ancora le possibili coperture sui saldi di finanza pubblica. Nel frattempo il tempo stringe e, si sa, il tempo è denaro. Sembra un ultimo avvertimento, prima della (sana) ribellione.
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