Illusioni nel cassetto, libro-confessione dello scrittore albanese Fatos Kongoli, pubblicato in Italia dalla casa editrice Rubbettino, reca come sottotitolo Quasi un romanzo su me stesso. Romanzo di formazione? Autobiografia? Autoanalisi o decostruzione ragionata del processo creativo? Storia di una generazione di intellettuali, nel quadro dell’Albania comunista di Enver Hoxha? Illusioni nel cassetto è tutto questo ma è, innanzitutto, per restare alle parole dell’autore, “una ricerca del tempo perduto”, in vita e in letteratura. Il testo ci conduce negli scandali della dittatura comunista e ci consente di comprendere fin dove si spingesse il regime nel perpetrare efferate privazioni materiali, spirituali e culturali al suo stesso popolo. Uno Stato di polizia ermeticamente chiuso, governato dalla paranoia, dal terrore, dal sospetto, dalla regola della delazione nei confronti del “nemico del popolo”. Il tempo perduto di Kongoli, ora settantaquattrenne, è sinonimo dello spreco, dello sperpero di talento e di possibilità, e della caduta, appunto, delle illusioni, destinate o a mutare forma e sostanza compromettendosi con il Potere, o a restare, inviolate, in un cassetto, perché incompatibili con i dettami dell’ideologia, ortodossia ostile, per definizione, a qualsiasi deviazione dalla retta via. Il comunismo divorava i suoi figli migliori. Emblematica rappresentazione di tale carneficina di menti acute, superiori, è la descrizione bruciante che Fatos riserva alla figura del padre Baki:
“Studi di violino in Italia, presso il Conservatorio di Pavia, ex insegnante presso la Scuola Normale di Elbasan, ex comunista, poi condannato, combattente della Guerra di Liberazione Nazionale, compositore, autore di decine di canzoni e di due operette, per molti anni segretario della Lega degli Scrittori e degli Artisti d’Albania, deputato dell’Assemblea popolare per due legislature, con buoni crediti presso le alte sfere del regime, che servì fedelmente fino alla fine, quando lo gettarono via spremuto come un limone, allegro e sempre di buon umore, mio padre è stato la persona più contraddittoria che io abbia mai conosciuto… mio padre è stato condannato dai suoi ma è rimasto un nostalgico fino alla fine”.
Un uomo colto, un grande lettore, che introduce il figlio allo studio del francese, lingua fondamentale per ovviare al limite delle scarsissime traduzioni delle opere dei grandi della letteratura mondiale in albanese. Un padre che lo indirizza, senza troppe spiegazioni, all’iscrizione alla facoltà di matematica presso l’università di Pechino, e che, in seguito lo introduce nella redazione di Drita, organo di stampa della Lega degli Scrittori. L’immaginazione del giovane Fatos preme verso le umane lettere e lo sostiene nell’invenzione dei primi racconti. Il fantasma del padre, uomo sconfitto dall’utopia, triturato da quello stesso ingranaggio che aveva contributo a far funzionare con sentimento di piena fiducia, pesa sulla sua prospettiva esistenziale e professionale, non meno dei ricordi provenienti dal ramo materno della famiglia, zii colpiti “dall’odio di classe, solo e soltanto perché erano stati ricchi”.
Fatos Kongoli, con sincerità disarmante, sottolinea le sue debolezze, difficoltà e inquietudini, a partire da una condizione di dipendenza dall’alcol che lo accompagna dall’adolescenza alla maturità, un vizio che contribuisce a minarne il fisico in maniera quasi irreparabile. “Il giorno in cui andai in pensione per inabilità fu tra i più tristi della mia vita. Dopo aver camminato alla cieca per decenni, dopo aver maltrattato la mia salute e molto altro, d’un tratto mi ritrovai fuori gioco. Mi sentivo colpevole, un capofamiglia fallito, incapace di garantire ai suoi familiari la sicurezza a loro così necessaria. Una sensazione veramente sgradevole. Tuttavia, incorreggibile nel mio egoismo, provai anche qualcosa che cadeva in contraddizione con la realtà economica disperata. Essendo stato riconosciuto inabile totale, ero libero”. Questa sensazione di libertà acquisita nella cornice di abitudini perniciose, una sorta di compiacenza per il torbido e per i bassi istinti catartici, testimonia la vicinanza dell’uomo-Kongoli, e delle opere in cui lo scrittore cala la sua esperienza, con i maestri della letteratura universale cui spesso i critici lo hanno accostato, in primis Fëdor Dostoevskij.
In Illusioni nel cassetto Kongoli evidenzia un percorso di crescita non lineare, caratterizzato da molti passaggi a vuoto e riscattato dall’assunzione, come redattore, presso la casa editrice Naim Frashëri. Un luogo che custodiva una biblioteca privata, unica per ricchezza e vastità, all’epoca, in Albania, descritta dall’autore come “un essere vivente”, un conforto nei tempi bui, una novella Alessandria, un antidoto alle lacune della conoscenza. Tra letture, traduzioni, incontri fecondi con intellettuali suoi pari, l’autore di un Uomo da nulla e di L’ombra dell’altro forgia il suo essere-scrittore. Kongoli ammette di aver letto alcune opere di giganti del romanzo e della poesia solo in tarda età, anche a causa dell’isolamento totale sofferto dall’Albania fino al crollo del regime (il suo primo viaggio in Occidente, a Parigi, risale solo al 1989), e di non essere in grado di scorrere con profitto le opere di Marcel Proust per il fatto di non aver mai raffinato la comprensione del francese “al livello della sua prosa”. Senza giri di parole, rivela di essere quasi completamente a digiuno di studi filosofici. Kongoli si dichiara ammiratore, e debitore, di altri autori di rilievo, da lui incontrati negli anni di frequentazione della società letteraria locale, Ismail Kadare e Dritëro Agolli in testa (non passa sotto silenzio uno scontro con quest’ultimo, agli albori della democrazia, con Kongoli nella parte di innovatore filo-occidentale e Agolli in quella di socialista restauratore).
Evocative, di una bellezza cruda, le sezioni dedicate alla cosiddetta “transizione”, il passaggio dalla dittatura al pluralismo partitico, e ai successivi tumulti di metà anni Novanta, causati dal crollo delle “piramidi” finanziarie. Brillano, nella memoria di Kongoli, i momenti fatidici dell’invasione pacifica delle ambasciate straniere da parte dei cittadini esasperati e dell’abbattimento delle statue raffiguranti gli “eroi” del socialismo reale, risaltano le immagini dell’assalto alle navi in partenza verso l’Italia e dei movimenti di piazza sorretti dalle avanguardie studentesche. Insistenti, in Illusioni nel cassetto, i riferimenti a uomini politici protagonisti della dittatura, poi scomparsi o, i più, riciclatisi nel nuovo ordine democratico. Uno dei fulcri tematici, forse il risvolto più affascinante del libro, è la riflessione sulla genesi e sulle motivazioni alla base dello scrivere romanzi, in un contesto schizofrenico come quello albanese, ingessato a lungo da un potere ossessivo e rapidamente azzannato dalle fauci di un capitalismo selvaggio. Attraverso l’esame di sé, delle proprie scelte, titubanze e fragilità manifeste, Kongoli conduce una spietata analisi del totalitarismo, un marchio indelebile sperimentato sulla pelle.
“Io ero pieno di ‘materiale vitale’. Non voglio entrare nei particolari, ma posso dire che con le cose che scrissi con tanta ‘facilità’ sprecai tutte le mie esperienze di quegli anni, quella nel villaggio, quella nella fabbrica del cemento, quella nel Kombinat Metallurgico, e così via, presentando al lettore realtà di vita diverse da quelle che avevo conosciuto, personaggi alienati, fusi in stampi rigidi, con superficialità e artificialità… A mio giudizio, tale è stata, in generale, la letteratura del realismo socialista: una frode letteraria consumata in piena consapevolezza, con la più grande ‘innocenza’”.
Come può emergere, e fin dove riesce a spingersi, in determinati contesti, la libertà creativa? Quanto può dire di sé uno scrittore, attraverso un personaggio, in un clima di censura? Può un’opera letteraria aprire una breccia nella muraglia della paura? Come preservare l’autenticità in letteratura? A quali esigenze deve rispondere un racconto: alla percezione personale o al richiamo della realtà oggettiva? Questioni, com’è evidente, che rischiano di ridiventare drammaticamente attuali.
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