Sebastiano Bavetta, Pietro Navarra
Il vantaggio delle libertàCome costruire la società aperta in Italia
da Formiche del 30 gennaio
Un saggio recente (II Vantaggio delle libertà: come costruire la società aperta in Italia di Sebastiano Bavetta e Pietro Navarra edito da Rubbettino) è stato commentato principalmente per l’affiato liberale proveniente da due economisti siciliani – ordinario all’ateneo di Palermo il primo, e rettore di quello di Messina il secondo). C’è, però, un punto ancora più inquietante che merita di essere approfondito. In un capitolo del libro si sostiene che la riduzione della produttività è fenomeno Sì particolarmente acuto in Italia, ma che riguarda tutte le economie “mature” sotto il profilo tecnologico. In Italia – ricordiamolo – tra il 1951 e il 1973, la produttività è aumentata del 6,7% l’anno, ma da allora, dopo una fase di rallentamento, è in caduta, una caduta che pare a picco e che porta con sé il decremento del Pil (il crollo dal 2007 è solo in parte imputabile ai mercati finanziari). Secondo scuole di pensiero molto distanti (si pensi ai lavori di Kindleberger e Janossi sul “miracolo economico”), la determinante principale del forte aumento della produttività nel periodo 1951-1973 è da attribuire all’alta qualità di risorse umane che nel decennio 1935-1945 erano state impiegate in occupazioni improduttive (in gran misura collegate al succedersi di guerre). Sempre secondo questa linea, esaurita la riserva di risorse umane di alta qualità, poco o nulla si sarebbe Ripresa senza produttività fatto per tenere sempre più alta quella delle nuove leve. Unitamente a una pressione fiscale sempre più forte e ad un sistema regolatorio sempre più tentacolare ciò avrebbe determinato la contrazione prima e il tracollo poi della produttività in Italia. Indi, una strategia diretta a dare la priorità alla scuola, all’università, alla ricerca, alla riduzione della pressione fiscale e della morsa regolatoria ci potrebbe rimettere in marcia.
L’ipotesi di Bavetta e Navarra aggiunge una determinante importante a questi elementi. Riprendendo analisi quantitative di economisti americani come Robert Gordon e Tyler Cowen, i due economisti siciliani sottolineano che nei Paesi Ocse il 70% della crescita della produttività è avvenuto prima del 1972 perché allora si è diventati “tecnologicamente maturi”. La tecnologia continua ad affinarsi, ma i suoi benefici sono principalmente per gli individui e hanno scarse esternalità e interdipendenze per il resto della collettività. Si pensi alla telefonia mobile agganciata alla telematica: ai primordi ha ridotto le distanze di spazio e di tempo per tutti ma da vent’anni produce innovazioni per i singoli (ad esempio, la vasta gamma di servizi offerti dagli smartphone) con scarse ricadute, però, sul resto della collettività. Quindi, il rendimento marginale del miglioramento tecnologico è diminuito. Tale diminuzione – aggiungo – è particolarmente grave perché avviene in una fase in cui un piccolo gruppo di Paesi (Nord America, Europa, Australia e Nuova Zelanda) dopo aver detenuto il monopolio del progresso tecnologico per 200 anni circa, lo hanno perso. E salvo una guerra mondiale e il ritorno del colonialismo, non potranno riacquistarlo più. Una ripresa senza produttività non può esserci. In Italia, da un lato, abbiamo indicazioni che a ragione del nostro assetto istituzionale, nel Belpaese il fenomeno è più grave che in molti altri Paesi; da un altro dal 1996 ci siamo tolti gli strumenti per approfondirlo analiticamente (le matrici di contabilità sociali) e simulare strategie politiche alternative per individuare tecnologie ad alte interdipendenze ed esternalità. Parafrasando una frase di Einaudi: deliberiamo senza conoscere – ossia andiamo a tentoni a volte sbattendo.L’Istat ha un nuovo presidente: auspichiamo che dia la priorità a strumenti rimasti fermi dal 1994 (sic!).
di Giuseppe Pennisi
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