Da duels.it
Nove David di Donatello vinti da Anime nere di Francesco Munzi, meritati dal primo all’ultimo. Ancora non un grande successo in termini di incassi ma ottima accoglienza da parte del pubblico, anche internazionale, alla 71° Mostra del cinema di Venezia, dove era in concorso. I riflettori sul film hanno un po’ adombrato l’origine letteraria, ovvero l’omonimo romanzo di Gioacchino Criaco pubblicato da Rubbettino nel 2008. Dai tempi di Corrado Alvaro non si cercava di raccontare l’Aspromonte dall’interno, al di fuori della forma reportage. Criaco, invece, attraverso una lingua immediata, trova la storia esemplare capace di scardinare un immaginario chiuso e respingente. Calabrese di Africo come i suoi protagonisti, lo scrittore segue la vicenda dei fratelli del romanzo lasciando a uno dei tre, Rocco, nel film interpretato da Peppino Mazzotta, la voce narrante, e agli altri due, Luigi e Luciano, la concretezza dell’azione. Le “anime nere” del titolo sono ragazzi cresciuti negli anni ’80 in quella specie di mondo a parte noto alle cronache solo per i rapimenti (il libro non a caso comincia con la consegna di “un porco”, ovvero un ostaggio, un sequestrato). La loro formazione criminale non passa necessariamente attraverso l’affiliazione alle ‘ndrine; anzi, in certi casi la presa di distanza anche plateale dal clan è un segno di coraggio. Più dei padri e dei nonni sanno mescolarsi alla società civile, studiano e lavorano a Milano o all’estero (Rocco appunto), ma resta con la terra d’origine un legame di sangue che pare ineludibile, qualunque cosa accada. Anche crudezza e crudeltà esercitano un imprinting in quell’ambiente.
Da un punto di vista narrativo, il film di Munzi (sceneggiato insieme a Fabrizio Ruggirello e Maurizio Braucci, con la collaborazione dello stesso Criaco) si prende qualche libertà rispetto al libro, a partire dalla struttura tragica che ricorda Fratelli di Abel Ferrara, e dalla definizione dei singoli personaggi (in particolare Luciano). Intatto, però, lo sguardo su un mondo dove moderno e arcaico si compenetrano, dove il “romanzo criminale”, più che in qualunque altra parte d’Italia, ha un aspetto prima di tutto antropologico. Munzi ha una grande intuizione, implicita nel libro: in Anime nere ogni uomo, ogni donna (a partire dalla straordinaria, inquietante figura di madre/nonna interpretata da Aurora Quattrocchi) rimanda a una tradizione antica, all’eco di disgrazie lontane, all’essenza immutabile dei luoghi, persino ai suoni, dati da una lingua che spesso sottende il suo vero significato. Sono loro – Luigi, Luciano, Rocco, il figlio-nipote Leo ma anche le figure di sfondo come il figlio del boss alla macchia Tallura – con silenzi e allusioni, a rappresentare il mistero del film. Che riflette sull’idea di “cinema del reale”, ultimamente persino modaiola, contaminandola con il genere, ovviamente noir. Facce neorealiste (lunghissimo cast in Aspromonte: Anime nere ha una storia produttiva molto interessante) e attori professionisti, dinamiche criminali autentiche e tragedia greca, descrizione meticolosa di un contesto circoscritto e preciso dove si rivelano però archetipi emotivi universali.
Per questo alla Mostra di Venezia – e ne sono testimone diretto – il film ha inchiodato alla poltrona un pubblico internazionale, come se il suo battito primitivo potesse essere riconosciuto e condiviso a qualunque latitudine culturale. Merito anche della scelta di Munzi di non mortificare la struttura di genere. Alcuni codici del cinema noir o del gangster movie sono anzi rispettati, a partire dai ruoli (voglio dire, si parva licet, che se Luigi è un po’ Sonny Corleone, Rocco avrebbe il profilo criminale e l’intelligenza scientifica per essere come Michael, se la tragedia non lo falciasse nel finale) e da una messa in scena della violenza mai reticente, mai schermata da falsi moralismi autoriali, nonostante l’essenzialità delle sequenze d’azione possa sì far pensare a modalità espressive più rigorose e antispettacolari. Quella di Anime nere è quindi una strada alternativa al noir italiano, diversa dal modello televisivo di Gomorra (Stefano Sollima) ma altrettanto in grado di superare le frontiere nazionali (venduto infatti in 19 paesi).
Di Mauro Gervasini
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