Da La Repubblica del 5 luglio
Sorridono con la mitraglietta in mano, la kefiah bianca e rossa in testa. Belle facce da studenti. Gli avranno pure detto di sorridere per la foto. Tuttavia è innegabile che c’è qualcosa di spontaneo, d’allegro, di scanzonato in quei sorrisi. Parlano della loro giovinezza. Sono i terroristi di Dacca. Ecco, il sorriso. Il sergente Eddie Di Franco, in servizio di guardia al quartier generale dei Marines americani a Beirut, si ricorda perfettamente che il 23 ottobre 1983 l’autista alla guida del camion carico di esplosivo, che uccise 241 suoi commilitoni, lo guardava fisso negli occhi e sorrideva. Un sorriso indelebile, che sarebbe poi diventato famoso con il nome di farah al-ibtissam, ovvero “il sorriso della gioia” di tutti i seguenti attentatori, degli uomini-bomba, fino a questi giovanotti della capitale del Bangladesh. La domanda che ci facciamo è: perché? Per quale ragione dei ragazzi colti, studiosi, benestanti, gioventù dorata di un paese poverissimo, che vive in bilico sul delta del Gange, vanno a morire così, con quella violenza rituale sulle loro vittime innocenti.
In un suo libro, L’uomo in rivolta, Albert Camus ha fornito una spiegazione plausibile per capire le ragioni di quel gesto: solo il suicidio permette di superare l’interdetto a uccidere uomini e donne innocenti. Il morire, scrive, giustifica l’uccidere. Utilizzando un paradosso, in cui Camus è maestro, sostiene che la volontà di morire degli attentatori dimostra da sola la credenza nella giustezza della propria causa. Gli attacchi suicidi come questo ennesimo di Dacca si giustificano da sé. Il sacrificio è ragione sufficiente per la missione suicida, e anche la spietatezza che comporta verso il “nemico”, sia esso un soldato combattente, oppure l’avventore di un bar o il cliente di un ristorante. In un libro istruttivo, La politica del terrorismo suicida (Rubbettino 2013), Francesco Marone spiega come la purezza sia il primo tassello di questa visione che a noi appare paranoica, fuori dalla realtà. In realtà non lo è: appartiene a un altro ordine mentale, quello della follia. Morire suicidi, afferma Camus, è la conferma della propria purezza.
Questa parola, “purezza”, non si usa più in Occidente. Siamo tutti “impuri”, perché ci siamo mescolati, perché non pratichiamo più, come nei primi secoli del cristianesimo, una religione assoluta, esclusiva, in conflitto con l’Impero entro cui è sorta. Chi si può dire “puro”? Eppure questa è la prima parola chiave se si vuole capire cosa c’è nella testa dì questi ragazzi di Dacca. Ciò che li fa agire non appartiene a nessun sistema logico: non c’è razionalità nel loro comportamento; o almeno non la nostra. Così è stato per i giovani attentatori del Bataclan, e per quelli dell’aeroporto di Bruxelles e del metrò. Marone sottolinea come non esista un solo profilo psicologico plausibile degli attentatori suicidi. Altri studiosi ritengono invece che qualcosa in comune tra loro ci sia. Studiando i candidati al martirio della seconda Intifada, quelli che sono stati fermati prima, o che hanno fallito, A. Meari conclude che si tratta di personalità fragili, dipendenti, ragazzi che soffrono di sensi di inferiorità, d’inadeguatezza, che chiedono conforto ad autorità morali, giovanotti instabili, con tratti depressivi e sindromi post-traumatiche da stress. Seguendo questa descrizione lo scrittore americano John Updike ha narrato in Terrorista (Guanda) la storia di un ragazzo di origine egiziano. Abbandonato dal padre da piccolo, figlio di una donna americana, viene plagiato da un predicatore islamico, che lo spinge a guidare un camion carico di tritolo per un attentato scongiurato all’ultimo dall’amante della madre. Un caso di emarginazione e di frustrazione, ma come mostrano le biografie degli attentatori di Dacca la maggior parte di loro proviene da classi medio-alte, ha studiato. Se l’emarginazione economica e sociale fosse la principale fonte del terrorismo suicida nel mondo, questo sarebbe pieno di suicidi, ha scritto con cinico realismo un economista. L’esempio di Osama Bin Laden, membro di una ricchissima famiglia saudita, è paradigmatico.
Per dare una risposta alla domanda perché lo fanno Michael Ingatieff ha sostenuto che si tratta della “sindrome di Erostato”: il giovane greco che diede fuoco al tempio di Artemide a Efeso per eternare il proprio nome. Lo studioso canadese mette in luce una questione importante: l’atto suicida contiene una promessa: “trasformare una nullità umana in un angelo vendicatore”. Non è cosa da poco in un mondo come il nostro abitato da miliardi di persone senza nome né fama né prospettiva alcuna di perpetuare il ricordo di sé oltre la propria esistenza. La religione fondamentalista assicura anche questo, coltiva l’Erostato che c’è in ciascuno. Questa sindrome contiene tra le altre cose un aspetto narcisistico che viene in luce in ogni atto suicida, in particolare in quello di giovani e adolescenti, quelli che sono in conflitto con il proprio ambiente famigliare, ad esempio paterno. Rohan, uno dei membri del comando di Dacca, ha un padre che è un membro di rilievo del partito governativo, un islamico moderato. Forse non è sufficiente, ma certo deve avere avuto un suo ruolo nel trasformare lo studente del college Scholastica in un feroce tagliagole.
Il fondamentalismo islamico oggi è la più pericolosa ideologia religiosa presente nel mondo e coltiva la cultura del sacrificio, dove la promessa del Paradiso appare una componente significativa di una miscela sconosciuta a noi occidentali secolarizzati, laicizzati, distanti da ogni idea di sacrificare la propria vita per un ideale. Cosa che fino a due secoli fa aveva invece corso anche da noi. Senza tornare alle origini del cristianesimo, alle vicende ereticali, ai conflitti religiosi che per tre secoli hanno insanguinato l’Europa cristiana, basta pensare al fideismo politico dell’inizio del Novecento, agli ideali socialisti e comunisti, dove l’individuo era nulla e il progetto collettivo tutto. Il sacrificio come strumento d’azione, metodo e forma della lotta. La religione, nella sua forma islamica, torna di colpo protagonista del nostro presente.
Per capire come funzioni tutto questo, bisogna rivolgersi alle pagine di un autore che ha conosciuto questa violenza sulla propria pelle. Prima ancora di essere messo al bando dalla fatwa degli ayatollah iraniani, Salman Rushdie ha raccontato in I versi satanici la storia di una santa islamica, una ragazza bellissima di nome Ayesha, che si trasforma in una mistica e una visionaria. Presa dal suo furore religioso, Ayesha trascina con sé la gente di un piccolo villaggio indiano: li convince che potranno raggiungere la Mecca attraversando il Mar Arabico che si aprirà davanti a loro come davanti a Mosè. Un solo uomo, il maggiorente ricco del villaggio, uomo laico, s’oppone. Alla fine Ayesha e gli uomini e le donne che la seguono entrano nel mare e scompaiono alla vista. L’uomo cerca di salvare la moglie e si tuffa. Sviene. In ospedale è sentìto dalla polizia. Accanto a lui un altro sopravissuto, un uomo che ha creduto in Ayesha. Entrambi sono convinti che le acque si sono aperte e la ragazza ha camminato lì in mezzo all’asciutto, e la gente con lei. I poliziotti spazientiti li minacciano di far loro vedere i cadaveri gonfi. Il fedele risponde: «Potete farmi vedere quello che volete ma io ho visto quello che ho visto. La mia vergogna – aggiunge – è che ìo non sono stato degno di accompagnarli nel viaggio: le porte del Paradiso si sono chiuse davanti a me». Ecco cosa c’è dietro a quel sorriso. Difficile smontare la convinzione dei visionari. Che fare? Opporre follia alla follia? Il problema che ora si pone non è piccolo e neppure indolore per il laico e razionale Occidente.
di Marco Belpoliti
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