Da L’Osservatore Romano del 24 maggio
In una delle scene più drammatiche di Marina – film sulla vita del cantante Rocco Granata – si vede un padre atterrito che riceve la notizia del proprio licenziamento in una lingua ostile e sconosciuta, senza poter rispondere. Dopo dieci anni di pena e sudore in una miniera di carbone belga, l’emigrante calabrese Salvatore viene cacciato perché un incidente sul lavoro l’ha reso invalido.
A tradurre le parole che distruggono i suoi progetti di vita, i due figli poco più che adolescenti. Sono loro, cresciuti in un Paese che li ha sempre considerati stranieri, ad affrontare l’ingiustizia inflitta alla propria famiglia, esprimendo nella lingua del padrone l’umiliazione silenziosa del padre. E sarà lui, il giovane Rocco, a salvare con la propria fisarmonica il sogno paterno in un futuro più dignitoso. La sua Marina (1959), infatti, diventando un successo mondiale, darà un nuovo senso al sacrificio dei genitori e al loro sradicamento da una terra amata e sempre rimpianta.
Simile nei suoi passaggi più dolorosi a tante altre storie passate e presenti di migrazione, la vicenda dei Granata coglie un aspetto centrale che le accomuna quasi tutte: l’aspetto familiare. Anche quando a partire è un individuo singolo, nella maggior parte dei casi si tratta di una scelta che nasce dalle esigenze dell’intera famiglia e dalla sua aspirazione a una vita migliore.
Un discorso serio sui fenomeni migratori, quindi, non può prescindere dall’orizzonte familiare e, al contempo, la riflessione sulla famiglia deve includere il tema della migrazione. Tale ineludibile intreccio, è presente ormai da tempo anche nel pensiero e nell’azione della Chiesa. Lo ritroviamo nei documenti sinodali sulla famiglia ed è stato oggetto dell’intervento pronunciato lo scorso ottobre a Ginevra dall’osservatore permanente della Santa Sede all’Onu, l’arcivescovo Silvano Maria Tomasi, che ha chiesto con forza alla comunità internazionale norme condivise Finalizzate a tenere unite le famiglie, a salvaguardarne la dignità e a proteggere i minori.
Una recente ricerca promossa dal Centro universitario cattolico della Conferenza episcopale italiana – Famiglia in Migrazione (Catanzaro 2014, Rubbettino Editore, pagine 138, euro 12) – affronta il tema da differenti prospettive (demografica, sociologica ed economica) e pur riferendosi al contesto italiano giunge a conclusioni valide per tutti quei Paesi europei “di confine” che negli ultimi vent’anni hanno conosciuto una rapidissima crescita dei flussi migratori.
Paesi ricchi che ancora faticano, sia a livello di opinione pubblica che a livello di decisioni politiche, a comprendere che i nuovi arrivi, nel loro insieme, non sono più conseguenza di emergenze temporanee, ma fenomeno duraturo che cambia il volto della società e ne segna il passo futuro. Basti pensare che circa un neonato su cinque in Italia ha origini straniere e che le famiglie immigrate sono oltre un milione e trecentomila.
Gli autori – Isabella Cordisco, Stefania Meda, Livia Ortensi e Sara Salomone – concordano nel definire queste presenze una preziosa iniezione di vitalità per un Paese a crescita demografica zero, piegato dalla crisi e abituato ormai da anni a demandare ad altri, straniere e stranieri, i lavori più pesanti. Tuttavia, scrive Ortensi, perché «la migrazione familiare verso l’Italia si traduca in una storia di successo, è necessario che vengano affrontate le sue criticità» che quasi sempre derivano vano dalla mancanza di integrazione.
Un’accoglienza inadeguata, se non addirittura atteggiamenti respingenti e razzisti, generano ampie sacche di emarginazione destinate, come insegna la storia recente dell’Italia, e ancor più di altri Paesi, a esplodere. E se le criticità sono molteplici (tra i capitoli più complessi, il cosiddetto «doppio svantaggio» delle straniere, discriminate come donne e come immigrate), la sfida più importante si gioca senz’altro con i bambini e con i giovani.
Le seconde, ormai terze, generazioni di immigrati, nate o cresciute in Italia, presentano delle caratteristiche ricorrenti che una società lungimirante non dovrebbe trascurare. Sono ragazzi in bilico tra il qui-e-ora del nuovo Paese e il là-e-allora del vecchio, che in molti casi conoscono solo attraverso i racconti dei familiari. In bilico tra lingue, culture, regole spesso molto diverse.
Eppure le loro identità – secondo le interviste a un gruppo di adolescenti di origine egiziana – «sono solide, salde,non ritirate né reattive: hanno chiara la loro appartenenza alla comunità egiziana ma sentono di appartenere anche all’Italia». Rispetto alla generazione precedente hanno confidenza con il Paese d’adozione (ma fino alla maggiore età, secondo la logica dello ius sanguinis, sono considerati stranieri) e in molti casi ne conoscono lingua e usanze ben più a fondo dei genitori. Da qui, spesso, un rovesciamento di ruoli, che li porta a diventare fuori casa mediatori e traduttori della propria famiglia e li carica di responsabilità da adulti.
E poi, c’è la scuola, ambito di vita cruciale, luogo per eccellenza dell’incontro o scontro con l’altro. È qui che questi nuovi italiani incappano negli episodi di razzismo riportati sempre più numerosi dalle cronache, ma è sempre qui che come tutti i compagni sperimentano rapporti felici, formando giorno dopo giorno la persona che saranno.
Per molti di loro la bilancia pende troppo pesantemente sul lato dell’ingiustizia e della cattiveria, generando sentimenti rovinosi per l’intera società. Per tutti, è una lotta difficile che meriterebbe almeno l’appoggio incondizionato di quanti rivestono cariche pubbliche o istituzionali. Per gli altri, a volte, c’è molto da imparare.
«Queste persone – ha scritto qualche giorno fa una ragazza senegalese di quattordici anni in risposta agli insulti razzisti ricevuti a Pisa nella sua scuola – non avranno quello che vogliono, non mi faranno nascondere a casa. Andrò ancora a scuola e studierò ancora più di prima. E continuerò a sentirmi «sia senegalese che italiana» I ragazzo «non hanno colpa – ha aggiunto suo padre – sono come un foglio bianco: lo puoi sporcare o ci potrai scrivere sopra bene».
di Silva Gusmano
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di Silva Gusmano