da Il Quotidiano della Calabria del 27 gennaio
Quando era bambino aveva creduto alla storia raccontata dal nonno: quelle cinque cifre verdi, 69752, marchiate sull’avambraccio sinistro erano il suo numero di telefono. Aveva deciso di tatuarlo per non correre il rischio di dimenticarlo. “Negli anni Settanta i numeri telefonici del paese erano di cinque cifre”. Inconsciamente quei numeri si imprimono nella memoria del giovane Eduardo Halfon, “sigillati” con il fuoco di una curiosità mista a uno strano senso di colpa. Lo accompagnano, muovendosi nel fluire dell’esistenza quasi sottotraccia. Allo stesso modo diventano il filo conduttore del suo bestseller internazionale “Il pugile polacco”, uscito in edizione italiana in questi giorni in libreria per i tipi di Rubbettino (121 pp, 12 euro). Chi si aspetta il solito libro testimonianza sulla Shoah rimarrà spiazzato. L’originalità del guatemalteco Halfon, classe 1971, che lo ha fatto includere tra i 39 migliori giovani scrittori latino-americani dall’Hay Festival di Bogotà e gli ha fatto vincere numerosi premi internazionali, fino a ottenere la prestigiosa Guggenheim Fellowship , emerge con evidenza nella struttura del libro. Non un unico racconto ma una serie di storie e personaggi che proiettano il lettore, con una tensione quasi da giallo, in realtà diverse e ugualmente interessanti e diventano stimolo continuo di riflessione e analisi attraverso un secondo filo conduttore: l’immensa ricchezza della letteratura e il suo valore formativo evidenziati dalla perfezione formale della scrittura di Halfon e dai rimandi puntuali ad autori e opere. Così all’inizio lo troviamo tra apatici studenti dell’Università Francisco Marroquin del Guatemala a parlare di Edgar Allan Poe e Maupassant e Cechov, Joyce, Hemingway. Lo vediamo scoprire tra questi ragazzi un giovane poeta, poi incontrare a un simposio un accademico esperto di Mark Twain di origine polacca come il nonno. Si riaffaccia il ricordo del racconto dei campi di Sachsenhausen e Auschwitz e del pugile polacco. Un’immagine fugace e il viaggio riprende. Il momento dell’incontro con una giovane hippie israeliana offre l’opportunità di tornare alle origini dell’autore, al nonno paterno ebreo libanese e a quello materno ebreo polacco, nato a Lodz, la stessa città del pugile polacco. Ad Antigua Gautemala la conoscenza di un singolare pianista serbo sposta l’attenzione sulla suggestione della musica, classica e jazz. Rachmaninov, Saint-Saens, Liszt, Stravinskij, Charlie Parker, Miles, Coltrane, Thelonious Monk. E Lazar Berman, l’ebreo russo in lotta con il polacco Chopin. Ritornano le origini, il nonno, il pianista polacco. Letteratura, musica e memoria incalzano e conducono pian piano alla fine del viaggio non senza passare dal melting pot newyorchese, alla città che non dorme mai, alla gente che «è là di passaggio…tutti lì nel loro assurdo peregrinare, poiché il mondo intero non è altro che un miserabile pugno di sale». Il tramite è Marjorie, una madre che cerca di sopravvivere al dolore della perdita di un figlio ma che non si sottrae allo stillicidio della memoria. Quella stessa che fa riaffiorare di continuo i cinque numeri: 69752. Il colore verde è diventato «un grigiastro stemperato e pallido». Il nonno in fondo è sempre stato nonno. Come se fosse nato nonno. E le domande ottengono finalmente le risposte. Il numero inciso sull’avambraccio nel terribile blocco 11 ad Auschwitz, il pugile polacco che lo aiuta a sopravvivere. La realtà diventa letteratura e la letteratura rompe la realtà.
«Perché è esattamente questo la letteratura. Nello scrivere sappiamo che c’è qualcosa di molto importante da dire rispetto alla realtà, e che abbiamo questo qualcosa alla nostra portata… sulla punta della lingua e che non dobbiamo dimenticarlo. Ma sempre, innegabilmente, lo dimentichiamo».
di Cristina Vercillo
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