Prof.ssa Barbara Curli, Lei è autrice del libro Il progetto nucleare italiano (1952-1964). Conversazioni con Felice Ippolito, edito da Rubbettino. Nell’attuale scenario di crisi internazionale, l’annosa questione dell’energia nucleare è, oggi quanto mai, di strettissima attualità.
Oggi si assiste a un rinnovato interesse per gli studi sul nucleare, al punto che si è arrivati a parlare di un vero e proprio “rinascimento” storiografico su questo tema. Si tratta di una nuova stagione di ricerche ispirata dai nuovi scenari geopolitici del dopo-Guerra fredda e dai cambiamenti in corso nella struttura economica, tecnologica e sociale delle società industriali avanzate. Mentre infatti in Occidente sono state avviate diverse strategie nazionali di phasing-out da questa forma di energia e di decommissioning dei vecchi impianti, la “civiltà nucleare” sembra invece essersi spostata verso altre aree del mondo in rapida crescita economica (come la Cina, dove sono in corso di costruzione 19 reattori), configurando una nuova geopolitica dell’energia nucleare. Al tempo stesso, il cambiamento climatico e la transizione verso energie a bassa emissione di carbonio hanno riaperto il dibattito sulle nuove generazioni di tecnologie nucleari e sulla loro dimensione ambientale. C’è quindi grande interesse e curiosità per una fonte di energia come quella elettronucleare, sulla quale si sa effettivamente poco. In particolare, si conosce pochissimo la storia del nucleare italiano.
In Italia la produzione di energia elettronucleare è stata fermata nel 1987, in seguito a un referendum svoltosi sull’onda emotiva del disastro di Chernobyl del 1986. La storia del nucleare italiano non finisce però in quella circostanza. L’Italia ha infatti avviato da qualche anno il processo di decomissioning dei vecchi impianti e la procedura per la costruzione di un Deposito nazionale delle scorie nucleari. Conoscere quindi la storia del nucleare italiano è oggi particolarmente rilevante, anche ai fini del dibattito pubblico in corso su questi temi.
Quali vicende segnarono la storia del programma nucleare italiano, dalle origini alla metà degli anni Sessanta, che è il periodo trattato nel suo libro?
Agli inizi degli anni Cinquanta l’Italia fu tra i primi paesi ad avviare un programma di ricerche e sviluppo nel settore nucleare. Già dopo la guerra presso il Politecnico di Milano era stato fondato il CISE (Centro italiano studi ed esperienze), diretto da Giuseppe Bolla e sostenuto da alcune grandi imprese interessate alla ricerca applicata in campo nucleare, come Edison e Fiat. Era un momento in cui peraltro si stavano sviluppando varie iniziative, soprattutto a opera di Edoardo Amaldi, per ricostituire la fisica italiana, che era stata dispersa dalle leggi razziali e dalla guerra. Per coordinare gli sforzi nel settore nel 1952 fu creato il CNRN (Comitato nazionale ricerche nucleari) che nel 1960 fu trasformato in CNEN (Comitato nazionale energia nucleare). Il Comitato si rivelò fin da subito un organo innovativo e dinamico di gestione della politica scientifica, anche grazie all’impegno del suo primo segretario generale, Felice Ippolito, ingegnere geologo napoletano che aveva avviato i primi studi sull’uranio in Italia. Amaldi era uno dei membri del Comitato. L’ingresso dell’Italia nel settore nucleare fu concepito come prospettiva strategica di diversificazione energetica, data la storica povertà italiana di fonti di energia e la sostenuta domanda di energia negli anni del “miracolo” economico, e al tempo stesso come progetto di politica industriale, volta alla modernizzazione tecnologica dell’industria italiana in un settore di punta. Anche in questo senso va vista la costruzione delle prime tre centrali nucleari italiane (Trino Vercellese, Garigliano e Latina) e di altre iniziative (come il centro di ricerche nucleari di Saluggia, di Fiat e Montecatini), realizzate tra il 1956 e il 1964. Tali progetti si avvalsero anche delle opportunità offerte da programmi di cooperazione internazionale, come quello americano degli “Atomi della pace”, e di collaborazione europea, come Euratom, la Comunità europea dell’energia atomica, nata con il trattato di Roma del 1956. Oggi pochi sanno che, come conseguenza di queste prime iniziative, nel 1965 l’Italia fu il terzo produttore mondiale di energia elettronucleare, dopo Stati Uniti e Gran Bretagna. Questa prima spinta si esaurì però piuttosto rapidamente.
Quali motivazioni spinsero l’Italia, alla metà degli anni Sessanta, ad abbandonare i grandi progetti di costruzione di centrali nucleari?
Concorsero vari motivi, economici e politici. Il progetto nucleare italiano finì ostaggio di lotte politiche interne negli anni del centro-sinistra, tra partiti e tra correnti del grande partito democristiano. Uno dei temi di scontro fu la nazionalizzazione dell’energia elettrica, che determinò enormi trasformazioni di potere e poteri nell’economia e nella società italiana. L’Enel (Ente nazionale energia elettrica), al quale in seguito alla nazionalizzazione del 1962 furono affidate la gestione delle centrali nucleari e le decisioni sullo sviluppo del settore, in realtà non credette mai veramente alla scelta nucleare e perseguì piuttosto lo sviluppo delle centrali termoelettriche alimentate a olio combustibile, in anni in cui si stava investendo massicciamente nell’industria della raffinazione petrolifera. Certo la concorrenza esercitata in quegli anni dal petrolio (allora fonte a basso costo) svolse un ruolo nell’indirizzare tali decisioni, ma mancò al tempo stesso una visione politica e strategica di diversificazione energetica, per cui l’Italia continuò ad aumentare la sua dipendenza dalle importazioni prima di petrolio, poi di gas. Inoltre, il “caso Ippolito” del 1964, che in quelle lotte politiche interne ebbe la sua genesi, fece sprofondare il CNEN in una lunga crisi. L’esito fu che già alla fine degli anni Sessanta il progetto nucleare italiano, che era partito in modo assai dinamico, cominciò a rallentare, e fu costruita una sola altra centrale, quella di Caorso.
Il volume contiene una lunga intervista a Felice Ippolito che di quel programma nucleare fu animatore e figura simbolo: che rilevanza ebbe, all’epoca, il cosiddetto ‘caso Ippolito’ e quale interpretazione se ne può dare oggi, a quasi sessant’anni di distanza?
Felice Ippolito fu processato per illeciti amministrativi commessi nella gestione del CNEN. Il processo ebbe vasta eco negli ambienti scientifici italiani e internazionali. Tra l’altro Ippolito era molto noto a livello europeo perché aveva partecipato ai negoziati e al primo periodo di formazione dell’Euratom. Il presidente di Euratom, Etienne Hirsch, che nel 1959 aveva inaugurato il centro di Saluggia (il primo centro di ricerca nucleare privato in Europa), venne personalmente a testimoniare al processo in favore di Ippolito, sostenendo come nei negoziati internazionali egli avesse sempre fatto gli interessi dell’Italia. Ma anche gli ambienti scientifici e tecnocratici si schierarono a favore di Ippolito. Nel libro ho definito il caso Ippolito come “il primo processo della modernità”, nel quale cioè si pose in modo drammatico la questione del rapporto tra la capacità dello Stato di gestire un settore avanzato come il nucleare, che richiedeva prontezza di decisioni, flessibilità, visione strategica, e un apparato burocratico in qualche modo ancora “ottocentesco”. Questa discrasia è stata, più in generale, uno dei grandi limiti del miracolo economico italiano: un paese che cresceva in modo tumultuoso senza che a tale crescita si affiancasse una altrettanto rapida modernizzazione dello Stato.
Quali conseguenze produsse l’abbandono del progetto nucleare italiano?
In seguito al caso Ippolito i programmi di ricerca del CNEN furono rallentati, e solo apparentemente furono rilanciati negli anni Settanta della crisi petrolifera, durante i quali di decise la costruzione di Montalto di Castro, mai portata a termine perché appunto interrotta dal referendum del 1987. Venne così meno il collegamento tra ricerca nucleare e progettualità industriale, e fu rallentata la formazione di conoscenze e professionalità di quella prima generazione di ingegneri nucleari e fisici nucleari che si stava formando nelle università italiane. Il settore nucleare italiano però è stato capace di ridefinirsi e ristrutturarsi, anche grazie a partnership internazionali, che hanno continuato ad attirare laureati nel settore. Il dibattito sul nucleare è però ancora fermo alla rozza dicotomia nucleare si/no, mentre parlare di nucleare, anche indipendentemente dalla produzione di potenza, significa in realtà parlare di ricerca scientifica, di cooperazione internazionale, di formazione di capitale umano nei settori avanzati, significa innovazione e capacità di pensare in senso strategico.