Il familismo amorale? Una formula di immeritato successo e indimostrata: anzi, secondo ricerche attuali, ce n’è meno a Sud che a Nord. Il capitale sociale? Altro concetto indefinito ineffabile con cui si spiega perché il Sud è economicamente indietro, ma quando vai ad analizzarlo, non spiega e non regge l’analisi. Lo sviluppo industriale del Nord? Sostenuto dallo Stato, finanziato e rifinanziato con soldi pubblici dopo i fallimenti (specie negli anni successivi alla prima guerra mondiale), tutelato con il protezionismo fiscale e favorito dalla vicinanza ai più ricchi mercati europei (quella “Blue Banana” che va dall’Inghilterra alla Valle Padana), resi raggiungibili con grandi opere pubbliche a spese di tutti gli italiani: ferrovie, trafori, porti, autostrade.
La minorità genetica delle popolazioni mediterranee opposta alle più intelligenti nord-europee? La storia e la scienza smentiscono. Il divario Nord-Sud quale retaggio della storia, risalente ai Borbone, ai Comuni, ai normanni, ai greci…? Non regge nessuna di queste presunte spiegazioni al rigore logico, mentre spiega molto di più e in maniera più convincente quel che viene fatto oggi o è stato fatto appena ieri (insomma: prima di saltare il presente e assolverlo, per cercare il perché nel passato remoto, vedi cosa sta succedendo adesso e forse non avrai bisogno di scavare nei secoli e nel Dna). A inseguire alcune spiegazioni accademicamente proposte, si rischia di raggiungere conclusioni simili a quelle, che oggi ci appaiono ridicole, dello psicologo Henry Goddard, secondo cui il 79 per cento degli emigrati italiani che, nei primi del Novecento, arrivavano a Ellis Island erano “deboli di mente” e in buona parte “moron”, cioè idioti, con età mentale analoga a quella dei bambini di otto anni.
L’arretratezza del Sud al momento dell’Unità? Ma l’Italia era tutta più povera, allora, in confronto ai maggiori Paesi europei; e però, in quella comune maggiore povertà c’erano differenze: gli stipendi erano praticamente uguali a Nord e a Sud, dove il potere d’acquisto era in qualche caso un po’ più alto; non esisteva un reale divario Nord-Sud (nel 1891 era ancora del 7-10 per cento; oggi è del 46, e fra Piemonte e Trentino è il 20, almeno il doppio di quello postunitario tra Nord- e Sud), ma al più c’era differenza fra la fascia tirrenica e quella adriatica e poi, a macchia di leopardo tanto a Nord quanto a Sud; ma la qualità di vita, o almeno dell’alimentazione, era un po’ migliore a Sud, al punto che quasi un giovane padano ogni due era scartato alla visita di leva, per malattie “costituzionali” (30 per cento) o imperfezioni fisiche incompatibili con il servizio militare: “gozzo o gola grossa”, “tigna o alopecia” (la dieta quasi esclusivamente a base di mais e la sottoalimentazione producevano danni enormi, che scomparvero quando sulle tavole arrivò qualcosa di più e di più vario). Persino nella “Inchiesta sulla Sicilia” del 1876 si legge che “il contadino siciliano non vive certo nell’agiatezza; ma forse peggio di lui vivono i contadini delle risaie lombarde, i pastori della campagna romana, i cafoni delle balze silane”. E ancora: “Pane di granturco, mal cotto umido e rancido, e minestra nella quale si ammaniscono le materie più scadenti quando non siano anche nocive”. Questo il pasto tipico di un contadino padano, si legge in una ricerca del 1868.
E se l’indice di povertà (i mendicanti, di fatto) nel Sud peninsulare era inferiore alla media nazionale (1,3 contro, 1,4), saliva “in Lombardia (1,7), Umbria (2,1) e Romagna (2,1)”. L’altezza media al Nord era maggiore che al Sud: questo non è indice di migliore alimentazione? No, perché tali confronti (proposti come prova della più diffusa miseria a Sud) non hanno senso “fra popolazioni”, ma solo all’interno di una popolazione; se paragoni un morto di fame watusso a un satollo pigmeo, stai barando; il raffronto ha senso solo fra watussi da una parte e fra pigmei dall’altra.
Non continuo, perché l’elenco è proprio lunghissimo e sempre illuminante: “Il Paese diviso. Nord e Sud nella storia d’Italia”, Rubbettino editore, il nuovo libro del professor di Vittorio Daniele, docente di politica economica all’università Magna Graecia, è una vera e propria miniera. Il professore non è nuovo a studi sul tema, basterebbe ricordare la fondamentale ricerca (“Il divario Nord-Sud in Italia. 1861-2011”) condotta con il collega professor Paolo Malanima, e con cui furono smontate molte false idee sulle condizioni del Mezzogiorno al momento dell’Unità e sulle ragioni di quanto accadde dopo; e giova ricordare anche i tentativi di negare quelle evidenze, per riportare indietro le lancette del pregiudizio, in particolare un libro di inedita sguaiataggine, in ambiente accademico, che meritò decine di pagine di rettifiche sui dati con cui si pretendeva di contestare quel lavoro.
Se ogni libro è lo specchio del carattere di chi lo scrive, questo nuovo del professor Daniele è il suo ritratto: accuratissimo, mai polemico, pacato, sempre alla ricerca di spiegazioni andando alle fonti, pur su temi ritenuti risolti e risposte date per acquisite. Un metodo che porta a ribaltare o raddrizzare tante idee, a rivedere spiegazioni che tali si scopre non sono. Un altro autore avrebbe magari proposto questi risultati in modo più forte, non dico gridato, ma sottolineandoli. Daniele si limita a esporli, come un farmacista.
Non potendo sintetizzare la quantità davvero notevole di questi dati, mi limito a riportarne alcuni a caso, scorrendo le pagine: “Una lunga tradizione di studi sottolinea l’inferiorità del Mezzogiorno nelle produzioni agricole” al momento dell’Unità. “Recenti stime” mostrano, invece, che “la produzione agricola per abitante nel Meridione risultava maggiore di quella del Centro e del Nord”; e ancora nel 1891, “il prodotto per lavoratore nel Mezzogiorno fosse nettamente più alto di quello del Settentrione”. Il più grande ateneo italiano era a Napoli, il Federico II: “vi risultava iscritto, infatti, il 60 per cento degli universitari italiani”.
Nel Sud, “le strade comunali erano poco estese in quasi tutte le province”. Il che sarebbe prova dell’arretratezza “borbonica”. Beh, “mancavano quasi del tutto in Sardegna”, amministrata dai Savoia. E c’è da aggiungere, a quanto scrive Daniele, che subito dopo l’Unità, la Sardegna sabauda, che aveva i peggiori indici di analfabetismo, produzione e ritardi infrastrutturali, viene aggregata al Sud, nelle statistiche nazionali, migliorando di colpo le medie del Piemonte e peggiorando di colpo quelle dell’ex Regno borbonico.
Però, nel Regno delle Due Sicilie, “il commercio tra località costiere, spesso anche vicine, avveniva principalmente via mare. Per numero e movimentazione di imbarcazioni, il Meridione era in vantaggio” e “nel decennio 1861-1871, solo due porti del Settentrione, Genova e Venezia, erano inclusi nell’elenco dei primi dodici italiani per movimento navale”, contro i sette di Sud e isole. Eppure, la marina mercantile napoletana, la più importante, dall’Italia unita fu “esclusa dal diritto di cabotaggio concesso, invece, anche alle navi inglesi e francesi”; e le linee fra i maggiori scali furono affidate a due compagnie genovesi, una siciliana e una inglese, “cui lo Stato, nel primo decennio unitario, erogò 60 milioni di lire”; così come le commesse pubbliche vennero dirottate al Nord e permisero anche “alla Società Veneta di Costruzioni (1872) di aprire cantieri in tutto il paese, fino a diventare una delle principali imprese nazionali”. “Lo Stato svolse un ruolo sostitutivo della domanda privata e propulsivo per la crescita industriale. Sostenendola con sussidi e protezione e favorì la crescita della grande industria” al Nord, “imprimendo, però, anche un carattere dualistico all’economia italiana”.
Il resto lo fanno i meccanismi economici, che continuando ad aggiungere ove già c’è, aumentano i divari. L’analisi del professor Daniele attraversa tutti i periodi della nostra storia unitaria, seguendo le convulsioni anche sulla tavola degli italiani (“nel 1922, la sottonutrizione riguardava un italiano su cinque. Nel 1938 un italiano ogni tre”), sino ai nostri giorni e con uno sguardo al futuro del Sud in un mondo ormai globalizzato. Uno sguardo, c’è da dire, venato di pessimismo che deriva dai dati. Si può capire: l’analista quelli guarda: “Conclusasi ormai da tempo l’epoca dell’industrializzazione, il divario che separa il Mezzogiorno dal resto d’Italia difficilmente potrà essere colmato”, conclude il professore.
Della cui competenza posso solo nutrirmi, ma ho uno strumento di misura che lui non ha e che, pur nella sua insufficienza (nulla di scientifico) ha una forza che i dati non hanno: quella della vita vissuta, della conoscenza diretta di territorio e persone. Giro il Sud continuamente, ascolto, discuto, osservo. Il mondo cambia dove meno te lo aspetti e i vinti di ieri e di oggi diventano spesso i padroni del domani. In tempi stretti (guardate, per fare un esempio stratosferico, il percorso della Cina in pochi anni). La sfida non è più il divario con il Nord, la sfida è mondiale. E il Mezzogiorno ha tutto per esserne un protagonista. Io ci credo, molti giovani mostrano di crederci.
Ce la faremo, prof, ce la faremo.
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