Il nuovo libro di Massimo D’Alema sui principali quotidiani italiani (Il Sole 24 Ore)

di Carlo Marroni, del 26 Febbraio 2014

Massimo D'Alema

Non Solo Euro

Democrazia, lavoro, uguaglianza. Una nuova frontiera per l'Europa


da Il Sole 24 Ore del 26 febbraio

Per D’Alema all’Europa serve un cambio radicale

“L’Europa ha bisogno di un cambiamento radicale e coraggioso”, scrive Massimo D’Alema nel suo ultimo libro che viene pubblicato in un momento decisivo per il futuro dell’Europa. Nei prossimi mesi si voterà per il Parlamento ed entro l’anno si rinnoveranno le istituzioni, in contemporanea con il semestre di presidenza italiano. «L’Europa ha bisogno di nuove motivazioni, di nuove immagini e di nuovi esempi, che ne ripropongano le ragioni profonde e le idealità. Così come ci ha commosso l’immagine dei cittadini e dei pescatori di Lampedusa, che cercano di salvare vite umane strappandole alla furia del mare, proprio là dove passa la nuova frontiera tra ricchi e poderi e dove si contano a migliaia le vittime della disperazione e dell’egoismo», scrive l’ex premier, che presiede le fondazioni Feps e Italianieuropei, e che parteciperà come membro della presidenza del Partito socialista europeo al congresso a Roma da domani al i° marzo. D’Alema traccia un quadro della crisi di legittimazione delle istituzioni dell’Unione, crisi che ha alimentato le proteste populiste, ma che anche a sinistra sta facendo crescere un sentimento antieuropeo o comunque profondamente critico dell’attuale funzionamento delle istituzioni comunitarie. «Il populismo, se lo si affronta senza il consenso del popolo, avrà partita vinta». Tra i primi obiettivi che indica D’Alema – in un quadro di iniziativa dei progressisti ai quali «spetta di riaprire il confronto politico» – c’è quello di aumentare la forza e la legittimità delle istituzioni europee, in particolare del Parlamento e della Commissione. «La priorità, oggi, è sfruttare il potenziale del Trattato per avanzare verso un’Europa dei cittadini, dello sviluppo e della solidarietà». Insomma, è necessario rafforzare la sua dimensione politica e, nello stesso tempo, «evitare che nasca una “Unione nell’Unione”, facendo in modo che gli organismi dell’area dell’euro si collochino all’interno delle istituzioni comuni della Ue, nelle quali sono rappresentati anche Paesi che non condividono la moneta unica». In questo quadro, ciò che appare particolarmente importante è rafforzare la legittimazione democratica e il peso politico della Commissione europea. «Diventi, quindi, presidente della Commissione il leader candidato dalla forza che raccoglie più voti alle elezioni del Parlamento europeo e che riesce a costruire intorno a sé la coalizione parlamentare più robusta». Per D’Alema sarebbe uno scenario nuovo, nel quale i partiti europei comincerebbero a esercitare un ruolo più diretto nel rapporto con i cittadini, e le istituzioni di Bruxelles apparirebbero meno lontane e più condizionabili dalla volontà popolare. Ma l’Europa deve avere uno sguardo d’insieme del esuo futuro, guardando (e lavorando) anche fuori dai propri confini, allargandoli, come nel caso della Turchia: «L’inclusione nell’Unione Europea della più grande democrazia islamica sarebbe una risposta straordinaria, all’altezza di ciò che il mondo si aspetta dall’Europa». Ricca l’appendice, con diversi approfondimenti su temi importanti, in particolare sull’impegno europeo verso il «Grande Medio Oriente» e verso l’Iran, sui rapporti tra Ue e Israele e sulla cooperazione tra la Russia e la Nato.

di Carlo Marroni

dal Corriere della Sera del 26 febbraio

Non bruciate l’UE, riformatela. la ricetta di D’Alema

Popoli arrabbiati d’Europa, avete ragione. La Ue deve cambiare e riscoprire il primato della politica se non vuole autodistruggersi a colpi di austerità indifferenziata. Ma attenti, perché la casa europea va riformata, non bruciata. E fare questo è possibile sin dalle prossime elezioni parlamentari di maggio.
Ha la forza di un appello da ultima trincea, la ricetta che il non candidato Massimo D’Alema affida al suo ultimo libro “Non solo euro” (Rubbettino Editore) alla vigilia della consultazione europea. Non a caso l’ex premier apre le sue riflessioni con una constatazione da tutti condivisa: nella maggior parte dei Paesi della Ue, malgrado i primi timidi segnali di ripresa, il clima dominante è quello di una grande tensione sociale e di una preoccupante, crescente sfiducia nell’Europa. Occorre dunque sì sperare che nelle urne l’Europa «tenga» davanti all’assalto delle liste populiste e anti-europeiste, ma a condizione di saper allungare lo sguardo, di avere la consapevolezza che la crisi è soprattutto politica e in termini politici va affrontata.
Le vie indicate da D’Alema sono molteplici e tutte molto impegnative. Il distacco crescente tra i cittadini e le istituzioni europee va colmato, ma da chi e come? Sul primo punto l’Autore non ha dubbi spetta alla sinistra democratica del continente cambiare e rimediare ai danni creati dalla destra, anche perché «se la sinistra democratica si presentasse alle elezioni come parte di un establishment schierato a difesa di questa Europa, così com’è, ne uscirebbe con le ossa rotte». Dunque non serve «più Europa», come spesso si è detto, ma «un’altra Europa». Nella quale torni il principio della solidarietà, nella quale i più poveri non debbano più paradossalmente finanziare i più ricchi, nella quale le scelte concrete vengano orientate in direzione della crescita e del lavoro non solo dal completamento del mercato unico e dall’attuazione delle riforme «ma anche attraverso rilevanti programmi di investimento da parte degli Stati nazionali e dell’Unione stessa». Nell’analisi di D’Alema il recupero degli investimenti pubblici, cioè del ruolo politico oltre che economico degli Stati, ha un posto centrale. Tanto più, egli osserva, che il metodo seguito finora (ma il problema non è quello di alimentare un sentimento antitedesco) non ha dato buoni risultati, e, affiancato alla impostazione intergovernativa dei processi decisionali europei, sta avendo l’effetto di rinfocolare sentimenti e pregiudizi di tipo nazionalistico. L’Italia è tra i Paesi sofferenti, e proprio per questo ha bisogno di riprendere con coraggio un corso riformista. Ma sarebbe illusorio pensare che senza una svolta europea noi potremmb farcela da soli. Il binomio austerità-riforme strutturali, afferma D’Alema, ha dimostrato la sua inefficacia nel promuovere la crescita. il problema, allora, non è quello velleitario di promuovere un referendum sull’uscita dall’euro, ma risiede piuttosto nel trovare la forza e la credibilità per contribuire a una riforma che parta dalle istituzioni europee. Bisogna rafforzare ulteriormente i poteri del Parlamento e fare lo stesso con quelli della Commissione, nell’ambito della costruzione di una Europa federale «che sia una grande potenza politica» (e D’Alema non trascura le potenzialità di una simile svolta anche in politica estera). Il rafforzamento dei legami democratici con i popoli dell’Unione comporterà una risposta «all’affermarsi del pensiero neoliberista», all’origine dei fallimenti attuali. Deve diventare evidente ai cittadini «che vi sono in campo proposte alternative alle scelte sin qui prevalse», in altre parole che promuovere la crescita si può ma soltanto con una interpretazione più flessibile e intelligente dei vincoli sin qui imposti. Va fatto oggi quel che non fu fatto a Maastricht: il coordinamento effettivo delle politiche economiche e di sviluppo, l’armonizzazione delle regole fiscali e degli standard sociali, la creazione di un bilancio federale dell’Unione, la lotta agli squilibri e alle diseguaglianze tra aree con diversi livelli di produttività e di competitività. Molto si può fare nell’ambito dei Trattati esistenti, ma va progettato, con «gradualismo e realismo» un nuovo patto istituzionale tra i Paesi membri. Le argomentazioni di Massimo D’Alema sono in buona parte convincenti, e del resto hanno trovato, almeno parzialmente, echi autorevoli nel discorso che Giorgio Napolitano ha pronunciato al Parlamento europeo il 4 febbraio scorso. Rimane però un pragmatico dubbio.
L’Autore indica con chiarezza nelle forze della sinistra democratica europea il veicolo del cambiamento auspicato. Ebbene, i socialdemocratici tedeschi hanno sempre sostenuto la linea Merkel e nelle trattative per il nuovo governo tedesco non pare abbiano sollevato eccezioni sulla visione della Cancelliera o su quella del suo ministro delle Finanze. I socialisti francesi, nella persona del presidente Hollande, cercano oggi un miglior rapporto con Berlino e annunciano modifiche di indirizzo che si avvicinano alla ricetta tedesca. Forse la svolta che D’Alema propone è già superata nei fatti, o è destinata a rivelarsi inattuabile? Probabilmente no, perché il pericolo che incombe sull’Europa attuale, veicolato da settori rilevanti delle opinioni pubbliche e dunque dalle elezioni, non può essere ignorato nè da Bruxelles nè da Berlino. Ma servirà una sorta di mission impossible : di quelle che potrebbero piacere a Matteo Renzi.

di Franco Venturini

Da La Repubblica del 26 febbraio

“L’Europa rompa le catene, la moneta non basta”

Esce venerdì, in occasione del congresso del Pse in programma a Roma, il nuovo libro di Massimo D’Alema Non solo euro (ed. Rubbettino). Il testo sarà edito anche in inglese a cura della Fondazione dei partiti progressisti europei che D’Alema presiede. Ne anticipiamo due brani.

La crisi economica e finanziaria che ha colpito il nostro continente si è estesa, logorando quel senso di appartenenza al comune progetto europeo che è stato uno dei punti di forza dell’esperienza di questo lungo dopoguerra. Questo fenomeno investe anche un Paese come l’Italia (…) fino all’emergere di spinte apertamente antieuropee, sempre più inquietanti. Ciò è avvenuto sotto l’impulso delle politiche populiste di Silvio Berlusconi e della Lega Nord, e, recentemente, anche con la nascita del Movimento 5 Stelle. Lungi dall’essere un modello, l’Europa è rapidamente diventata un vincolo e, quindi, un problema. (…) Per molti il bersaglio europeo è un modo per scrollarsi di dosso le responsabilità dei problemi annosi e irrisolti che vive l’Italia. Ciò vale soprattutto per Berlusconi e la destra, artefici di un progressivo allontanamento del Paese dai criteri e dai principi stabiliti a Bruxelles (…) Ma attenzione: le nostre critiche all’Unione europea non sono dello stesso segno. Il centrosinistra può rivendicare il merito di aver abbattuto il peso del debito pubblico rispetto al pil dal 121 al 103% e dì avere azzerato lo spread fra i nostri titoli di Stato e quelli tedeschi (nel dicembre del ’98, al momento della nascita del governo da me presieduto, si toccò il record positivo cli 4 punti). Fu il centrosinistra a ricondurre la spesa pubblica entro livelli ragionevoli (…) Purtroppo, in parte questi risultati sono stati ridimensionati o n’era-ti dalla politica di Berlusconi e della destra. Per questo, un giudizio sulventennio che accomuni tutta la classe dirigente in un indistinto fallimento non è soltanto ingiusto e infondato, ma anche sciocco e autolesionista, se viene dall’interno del centrosinistra alle più vaste platee dei cittadini – e aggiungerei dei giovani – le ragioni storiche e le motivazioni attuali del progetto europeo». (…) È chiaro che l’Europa è oggi di fronte a nuove sfide che vengono dalla complessità del mondo globale (…). Di fronte a questa realtà, il nostro continente è stato attraversato da paure, riflessi di chiusura, velleitarie nostalgie di un tempo passato. Ma l’Europa non è il passato: essa può essere una parte vitale ed essenziale del futuro. (…) L’Europa ha bisogno di nuove motivazioni, di nuove immagini e di nuovi esempi, che ne ripropongano le ragioni profonde e le idealità. Così come ciha commossol’immagine dei cittadini e dei pescatori di Lampedusa, che cercano di salvare vite umane strappandole alla furia del mare, proprio là dove passa la nuova frontiera tra ricchi e poveri e dove sí contano a migliaia le vittime della disperazione e dell’egoismo. Così come ci inorgoglisce l’immagine dei rappresentanti europei che applaudono, all’Onu, il successo della Risoluzione sulla pena di morte, malgrado l’opposizione degli Stati Uniti e della Cina (…). Sono convinto che quest’Europa non ripiegata su se stessa, non prigioniera di una dimensione esclusivamente monetaria ed economicistica, non incatenata dai vincoli che essa stessa ha posto alle proprie straordinarie potenzialità, questa Europa orgogliosa e consapevole della forza della propria civiltà, possa appassionare e mettere in campo una nuova generazione.

di Massimo D’Alema

da La Stampa del 26 febbraio

Il piano di D’Alema per la UE “Meno austerity da subito e più investimenti di qualità”

Non «più Europa», ma «un’altra Europa». Un’Europa in cui «torni la Politica, quella vera, e si rimetta in moto la speranza». A tre mesi dalla consultazione che chiamerà gli elettori continentali a designare i propri rappresentati nell’unica assemblea transnazionale eletta a suffragio universale – ma anche alla vigilia del vertice romano del Partito socialista europeo di questo fine settimana -, Massimo D’Alema denuncia la «dirompente divaricazione fra cittadini e istituzioni» provocata dalla crisi, e invita l’Ue a una svolta radicale e necessaria. Non solo. Chiede alla «sinistra democratica» di cambiare strategia e approccio. Presentarsi al voto «in difesa di questa Europa», sostiene l’ex premier, vorrebbe dire «uscirne con le ossa rotta». È stato un lungo viaggio quello che ha impegnato negli ultimi anni D’Alema come presidente della Feps (Fondazione europea per gli studi progressisti), compiuto mentre tutto cambiava e i Ventotto faticavano a tenere la macchina in strada in un contesto di generalizzata perdita di consenso. Il risultato dell’esperienza, e delle riflessioni che l’hanno accompagnata, è un pamphlet che esce ora per Rubbettino, intitolato «Non solo euro», una mappa per un’Europa diversa e una ricetta per vincere la crisi. Materia di discussione per tutti. Soprattutto per il vertice in casa socialista. Si parte dalla recessione e dal disagio. Dalla perdita di fiducia. Dalla consapevolezza che «più Europa» è «una parola d’ordine che rischia di alimentare paura, sospetti e timori». D’Alema identifica nel fallimento della Convenzione che doveva riforma i Trattati una delle cause del malfunzionamento, la circostanza che «ha reso l’Europa più tecnocratica, ostile al Welfare, lontana dai cittadini». Il risultato è che la crisi «sta rinfocolando sentimenti e pregiudizi di tipo nazionalistico». L’Italia non fa eccezione. L’ex premier rivendica il ruolo del centrosinistra nella difesa della vocazione europeista del Paese, ricorda Amato, Ciampi e Prodi. E contesta l’era Berlusconi, «protagonista di una perdita di credibilità sullo scenario internazionale» portata dal centrodestra «al punto più basso». Guai, dice ai suoi, generalizzare le responsabilità. Cambiare si deve, certi che l’idea secondo cui «la crescita verrà dal binomio “austerità più riforme strutturali” ha dimostrato inconsistenza». E allora? Dal punto di vista economico, D’Alema auspica «una politica di investimenti di qualità» e un gran lavoro sulla domanda interna. In parallelo auspica il rilancio della Politica, aumentando la forza e la legittimità delle istituzioni europee, e rendono più forte la solidarietà, la cooperazione, l’aiuto reciproco, visto che visto che «la dottrina di Maastricht ha rivitalizzato il nazionalismo economico». «L’integrazione politica è la risposta più ambiziosa che possiamo dare alla crisi: costruire un’Europa federale che sia grande potenza politica». L’ex premier sottolinea l’importanza di una vera politica estera comune che rafforzi il ruolo dell’Europa nel mondo e lamenta l’assenza di una strategia comune per l’immigrazione nel dopo Lampedusa.
Ipotizza ricette concrete: mutualizzazione del debito, con un fondo comune per finanziari i debiti oltre il 60% del Pil, e un piano Ue per gli investimenti. «Bisogna rivalutare il ruolo dello Stato come attore economico», superando la convinzione che «l’intervento pubblico in campo industriale sia negativo. Più investimenti, è l’appello, lo stesso del presidente Napolitano nel discorso di febbraio a Strasburgo. Tutto ciò, argomenta però D’Alema, non si farà senza ristabilire il primato della Politica. L’alternativa, come disse Mitterrand, sono i nazionalisti e le guerre. Minaccia seria. Il laboratorio sull’alternativa deve
essere aperto subito.

di Marco Zatterin

Da Il Messaggero del 26 febbraio

L’Europa di D’Alema, più partecipazione e meno populismo

Nella fase probabilmente più tormentata della storia dell’Europa, quella in cui per intenderci i venti di contestazioni da sempre presenti sono diventati vari e propri uragani capaci di svellere dalle fondamenta l’intero edificio continentale, e alla vigilia di un appuntamento elettorale che proprio per queste ragioni minaccia di essere dirompente e produrre il paradosso di un Parlamento a maggioranza anti-europea, Massimo D’Alema sceglie di mandare alle stampe un suo volume all’Europa e alle sue tante problematiche interamente dedicato. Il libro esce in italiano ed in inglese; si intitola Nonsoloeuro (It’s not just about Euro), con il sottotitolo Democrazia, lavoro, uguaglianza-Una nova frontiera per l’Europa, ed è edito da Rubbettino e contemporaneamente dalle FEPS, la fondazione dei progressisti europei che D’Alema presiede a Bruxelles. Qual è il punto? Che è fondamentale immettere aria nuova nei polmoni europei rattrappiti dagli egoismi nazionali: l’aria della democrazia, della partecipazione popolare alla definizione delle griglie di potere dell’Eurotower, dello sbriciolamento della tenaglia austerità-tagli che porta recessione e impoverimento. E devono essere – questo il messaggio politico di D’Alema – i socialisti a farlo.
ISTITUZIONI AL BIVIO
Il dato da cui partire non può che essere quello della crisi del sogno europeo. Che ha trovato e trova alimento nel populismo di destra ma che anche a sinistra ha fatto proseliti. «La divaricazione che si è venuta a formare tra cittadini e istituzioni – scrive D’Alema – appare dirompente, e solo una risposta politica coraggiosa e radicale può essere all’altezza di una sfida drammatica da cui dipende il destino stesso dell’Europa». L’analisi di D’Alema taglia corto con le ipocrisie e rimanda al peccato originale europeo, quel no alla Costituzione del Vecchio Continente che ha avuto come conseguenza «il prevalere del metodo intergovernativo fondato sul rapporto fra governi dei Paesi più forti e, in definitiva, sul ruolo dominante della Germania. Il risultato è stato, per molti aspetti, il contrario esatto di quello che propugnavano alcuni sostenitori anti-referendari. L’Europa è diventata, cioè, ancora più tecnocratica, ancora più ostile al welfare, ancora più lontana dai cittadini». Adesso bisogna correre ai ripari. E la ricetta dalemiana è netta: si tratta di rafforzare «la legittimazione democratica e il peso politico della Commissione europea». Come? Sottraendo la nomina del presidente della Commissione al gioco negoziale dei singoli governi dei Paesi membri e affidandola invece al voto popolare. Insomma «diventi presidente della Commissione il leader candidato dalla forza che raccoglie più voti alle elezioni del Parlamento europeo e che riesce a costruire intorno a sé la coalizione parlamentare più robusta. A quel punto, sarebbe giusto che il Consiglio europeo prendesse atto di quella designazione popolare, consolidando così la relativa autonomia e indipendenza della Commissione all’interno dell’architettura istituzionale» Basta? Certo che no. E necessario intervenire a fondo anche nei complessi meccanismi economici e finanziari che sovrintendono al funzionamento della Ue e del rapporto con il mercato globalizzato: «Occorre gradualmente rafforzare forme di controllo e ridimensionare il sistema bancario ombra, ovvero tutto quel fitto reticolo di intermediari finanziari, che, grazie al processo di deregulation degli anni scorsi, fornisce servizi simili a quelli delle banche tradizionali. Occorre, inoltre, separare le banche commerciali da quelle di investimento». Azioni che possono favorire la crescita e lo sviluppo, e che in Italia devono essere bandiera del governo di centrosinistra. E forma concreta di unità sarebbe una politica estera comune, anche per quel che riguarda il tema dell’immigrazione, assai delicato soprattutto per l’Italia. Un’Europa così può far sognare una nuova generazione ma è anche una necessità nell’equilibrio mondiale delle forze: «Possiamo davvero immaginare – si chiede retoricamente D’Alema – un mondo senza il patrimonio di civiltà che noi rappresentiamo? Un mondo privo dell’umanesimo europeo, capace di tenere insieme la libertà e l’autonomia della persona, con i suoi diritti individuali, la democrazia politica e la solidarietà sociale? Sarebbe più povero, diviso, attraversato da tensioni, scontri e ingiustizie». Dunque si può fare, è la suggestione dalemiana. Meglio: si deve fare: «È uno sforzo ed un impegno perché torni la politica e si rimetta in moto la speranza».

di Carlo Fusi

Da Europa del 26 febbraio

L’Europa al massimo

Doveva sprofondare in una crisi esistenziale, l’Unione europea, perché l’attesa delle elezioni per il rinnovo del parlamento di Bruxelles si caricasse della tensione di un confronto politico vero e duro. Questa volta non sarà il solito appuntamento poco sentito, rituale, nel migliore dei casi un test per misurare in ogni paese i rapporti di forza nazionali. A maggio la posta in gioco è molto alta: è il futuro stesso dell’Unione, la sua tenuta, la sua capacità di essere vista come un destino inevitabile e conveniente per i popoli europei, e non come la madre di tutti i problemi di questo momento storico, una iattura da combattere con determinazione, secondo la propaganda delle forze populiste e antieuropee, che crescono e si diffondono in tutti i paesi della Ue. I partiti che dell’europeismo hanno fatto uno dei loro tratti fondanti e caratteristici, e che sono gli edificatori dell’Unione, vanno al voto di maggio dovendosi fare carico di una difficile difesa dei suoi valori e dei suoi punti di forza. Tenere alta la bandiera europea non basterà, però, se le forze europeiste non coglieranno “la verità” di quella che, come si suol dire, è una risposta sbagliata a un problema giusto e reale. «Le etichette “populismo” e “antieuropeismo” rischiano di essere un modo di esorcizzare il problema o di dare corpo alla pretesa illusoria di circoscrivere e delegittimare la protesta. In realtà, la divaricazione che si è venuta a formare tra cittadini e istituzioni appare dirompente, e solo una risposta politica coraggiosa e radicale può essere all’altezza di una sfida drammatica da cui dipende il destino stesso dell’Europa». La pensa così Massimo D’Alema, che avverte i leader progressisti del Vecchio continente: «Se la sinistra democratica si presentasse alle elezioni come parte di un establishment europeista che appaia schierato in difesa di questa Europa, così com’è, ne uscirebbe con le ossa rotte. Il populismo, se lo si affronta senza il consenso del popolo, avrà partita vinta. L’europeismo tradizionale, seppure nobile, sarebbe senza dubbio perdente». Non deve stupire quest’assillo europeista in D’Alema. È da un po’ che l’ex presidente del consiglio sente angusto il perimetro domestico. Ed è uno dei pochissimi politici italiani a ragionare e a muoversi avendo presente che l’Italia è parte del mondo, e può anche esserne uno dei protagonisti. Essendo poi alla guida ormai da quasi quattro anni della Foundation of European Progressive Studies (Feps), il pensatoio dei progressisti europei, è anche naturale che immagini il suo prossimo futuro in qualche stanza dei bottoni di Bruxelles. Sarà pure per questo che ha scritto un saggio per Rubettino, in uscita nelle librerie, “Non solo euro. Democrazia, lavoro, uguaglianza! Una nuova frontiera per l’Europa”, 139 pagine che già dal titolo indicano una linea, costituiscono un manifesto politico. Una connotazione resa ancora più evidente dal momento in cui esce il libro, cioè in concomitanza con le assise del Partito socialista europeo, in programma da domani 27 febbraio al primo marzo al palazzo dei congressi di Roma.
Ma al di là delle intenzioni che si possono attribuire all’autore, il saggio ha l’indubbio valore di essere l’ideale testo base per condurre – innanzitutto da parte del Pd e dei suoi candidati – una campagna elettorale per le europee in posizione d’attacco, non solo per contrastare le spinte euroscettiche ed eurodistruttive, di destra, ma anche per far fronte all’insidiosa competizione a sinistra, che sembra aver trovato nel greco Alexis Tsipras un credibile candidato alla presidenza della commissione europea. E questo è molto chiaro quando D’Alema afferma che «i socialisti, i progressisti e gli europeisti democratici più convinti non possono che battersi per una radicale alternativa rispetto all’attuale condizione delle istituzioni dell’Unione e al fallimento delle politiche anticrisi». Al centro del saggio, con una buona dose di fervore e di passione, le vecchie ragioni del socialismo, ancora più forti alla luce del fallimento dell’ideologia neoliberista, «che ha imposto una modificazione delle priorità della politica economica europea: da un’economia sociale di mercato, che aveva al centro l’impegno per la piena e buona occupazione, a una politica che ha assunto come priorità la lotta all’inflazione e alla stabilità monetaria, e che ha considerato la flessibilità del lavoro e il contenimento dei salari come l’unica forma accettabile di aggiustamento». È un D’Alema che crede nel ritorno al ruolo dell’intervento pubblico. D’altra parte non va in quella direzione l’amministrazione Obama, specie in questo suo secondo mandato? In Europa, invece, «la demonizzazione del ruolo dello Stato e l’esaltazione acritica del mercato hanno toccato livelli di autolesionismo che non hanno eguali in nessuna parte del mondo». D’Alema è «fermamente convinto che l’Europa non sia necessariamente condannata al declino e non debba arrendersi a questo destino», e potrà anzi «essere un pilastro dell’ordine mondiale che si sta delineando», ma solo se sarà «in grado di agire coerentemente come un soggetto unitario e non come un insieme disordinato di vecchie potenze». Sì, l’Europa può giocare un ruolo chiave nel mondo, nel quale oltre ai paesi del Bric sono protagonisti quelli del Mint, non sigle astruse, ma gruppi di paesi emergenti sempre più forti con i quali fare i conti e competere. E può farlo, l’Europa, «a patto che noi europei non concepiamo l’Unione come una fortezza chiusa e ostile, ma come un progetto politico aperto e un modello di società inclusiva, con una visione del mondo fondata sulla pace, sul pluralismo culturale e sulla collaborazione tra i popoli». In quest’Europa, l’Italia. Che nel secondo semestre ne assumerà la guida. È anche in quella prospettiva che va letto il libro di D’Alema, perché è nella dimensione europea che il nostro paese può ritrovare il ruolo che gli spetta, uno dei fondatori dell’Unione, anche in virtù della sua unica posizione geopolitica, paese chiave del Mediterraneo, che guarda al Levante che sa dialogore con i paesi mediorientali.

di Guido Moltedo

Da Il Foglio del 26 febbraio

Più democrazia e meno tecnocrazia. così parla il D’Alema europeo

Roma. Nel Dopoguerra, “la scelta europeista di Alcide De Gasperi fu fondamentale per sostenere il processo di rinascita e il cosiddetto miracolo economico”. Ormai sotto i ponti sono passati interi oceani e, pur essendo dal punto dí vista organizzativo soprattutto l’erede della storia comunista, colpisce sempre riflettere sul fatto che gli unici politici che il Pd sia riuscito a mandare a Palazzo Chigi provengano dalla storia democristiana: Romano Prodi, Enrico Letta e Matteo Renzi. Con l’eccezione di Massimo D’Alema, ovviamente. E dunque risulta ancora più interessante che l’onore delle armi al grande avversario di Palmiro Togliatti sia reso, nel suo ultimo libro, proprio da Massimo D’Alema: l’unico esponente dell’ex Pci divenuto presidente del Consiglio italiano. Peculiare poi, per un ex comunista che non ha mai rinnegato il suo passato, scivolone capitato invece ad altri leader, è anche la chiamata d’attenzione all’Europa per la spada di Damocle rappresentata dalla tradizione imperiale russa: “Non vogliamo una nuova Guerra fredda e non è nostro interesse una contrapposizione che spingerebbe Russia e Cina ad avvicinarsi in un’ottica di confronto con l’occidente. Ma non possiamo neppure subire l’arroganza nazionalistica di Vladimir Putin”, scrive D’Alema. Peculiare è anche la rivendicazione della superiorità del modello americano: “Si guarda al ‘modello Germania’, eppure, come testimoniano i dati pubblicati nel gennaio 2014 dall’Istituto di statistica tedesco Destatis, nel corso del 2013 la crescita di quel paese è stata circa un sesto di quella registrata negli Stati Uniti”. Del resto, già dai tempi della guerra del Kosovo D’Alema aveva dimostrato la propria capacità di innovare in maniera radicale rispetto agli schemi del (suo) passato. Innovare, ma non rinnegare. Specialmente nel momento in cui il successo di Renzí sembra accentuare la sterzata liberai del Partito democratico, con il libro in uscita venerdì, proprio in occasione dell’assise dei socialisti europei, Massimo D’Alema intende riproporre tutte intere le ragioni del riformismo progressista interne alla sinistra non solo italiana, ma continentale. Non a caso assieme all’edizione italiana, “Non solo euro. Democrazia, lavoro, uguaglianza. Una nuova frontiera per l’Europa” (Rubbettino, 136 pp., 12 euro), viene pubblicata in contemporanea anche l’edizione inglese, “It’s not just about Euro”, a cura di quella Fondazione dei progressisti europei che lo stesso D’Alema presiede a Bruxelles. Ragioni del riformismo progressista che poi si potrebbero sintetizzare in uno slogan solo: “Il ritorno della politica”. Se nelle imminenti elezioni europee c’è il rischio di un successo senza precedenti di forze animate da un duro populismo anti euro- peista, se i cittadini dei paesi membri inveiscono contro la fantomatica costruzione europea, se la crisi rischia di trasformare l’Europa nel grande malato del pianeta, se il risveglio dei nazionalismi e della germanofobia sembrano addirittura riportare ai fantasmi che giusto cent’anni fa scatenarono la Prima guerra mondiale, nell’analisi di D’Alema, “è soprattutto l’affermarsi del pensiero neoliberista, che ha predicato il primato dell’economia sulla politica, ad aver impoverito l’Europa, rafforzando le tendenze tecnocratiche e favorendo una sorta di separazione fra le decisioni europee – appunto, tecniche – e il confronto politico e culturale”. Perché la politica è discussione e scelta fra progetti alternativi, e “non può essere sostituita da un groviglio di regole, parametri e criteri, che finiscono per imbrigliare la libertà della decisione e dell’iniziativa”. Insomma, e appunto, non al solo euro deve ridursi l’Europa. O ai soli “compiti a casa” che troppo spesso in tono minaccioso e vessatorio commissari europei e capi di governo hanno intimato agli italiani recalcitranti. “E’ giunto il momento in cui la politica riconquisti il proprio spazio”, anche attraverso riforme che restituiscano ai processi decisionali europei democraticità e trasparenza. Se tecnocrazia e populismo sono le due facce della crisi democratica in Europa, “è il tema della democrazia che si presenta in tutta la sua forza dirompente”.

di Maurizio Stefanini

Dall’ Unità del 26 febbraio

La Sinistra e l’Europa

Pubblichiamo alcuni brani del libro del presidente di ltalianieuropei in uscita nei prossimi giorni per l’editore Rubbettino: “Non solo Euro”

Da destra è venuta un’offerta fatta di antiche e facili certezze: il richiamo alla terra, al sangue, alla religione. Anche il dibattito sulle «radici cristiane» dell’Europa ha finito, da molte parti, per ridurre il riferimento alla religione a un baluardo identitario, a una sorta di scudo per proteggersi dall’influenza di altre fedi e di altre civiltà. Una deriva che ha accentuato una dialettica negativa con una altrettanto resistente tensione laicista, anch’essa espressione di un’Europa del passato. Penso, infatti, che oggi più che mai ci sarebbe bisogno di un dialogo tra fede e ragione, ma tra una fede religiosa aperta e universale, portatrice di speranza, e una ragione capace di reagire alle paure irrazionali, riproponendo il valore della scienza e della storia.
Ma a livello dell’Unione, è soprattutto l’affermarsi del pensiero neoliberista, che ha predicato il primato dell’economia sulla politica, ad aver impoverito l’Europa, rafforzando le tendenze tecnocratiche e favorendo una sorta di separazione fra le decisioni europee – appunto, tecniche – e il confronto politico e culturale. Intendo quella frattura fra policies e politics che è stata denunciata come uno degli aspetti più gravi della crisi europea.
A questo punto, spetta ai progressisti riaprire un confronto politico a livello europeo. La politica, infatti, è discussione e scelta fra progetti alternativi, e non può essere sostituita da un groviglio di regole, parametri e criteri, che finiscono per imbrigliare la libertà della decisione e dell’iniziativa. So bene quanto sia stata importante la collaborazione tra le grandi famiglie politiche progressiste e moderate, in particolare tra socialisti e popolari. Una collaborazione che resta condizione decisiva per sostenere il cammino dell’integrazione. Ribadito questo, però, essa non deve impedire un aperto confronto e anche, se necessario, un conflitto tra diverse proposte di politica economica e sociale.
Insomma, rafforzare la dimensione politica dell’Europa significa rendere più evidente una dialettica tra destra e sinistra. Per parte nostra, significa attaccare un’impostazione neoliberista e una politica della mera austerità, che hanno prodotto guasti molto profondi. Nascondere questi contrasti sotto l’egida di un indistinto linguaggio «europeista» finirebbe soltanto per dare vantaggio alle spinte populiste, che cercano di rappresentare il disagio di chi sta male e di scaricare su questa Europa la responsabilità della crisi sociale.
Dobbiamo, dunque, imprimere una svolta politica al nostro modo di stare in Europa. Lungi da noi il linguaggio e le pratiche estremiste che abbiamo contrastato e che continueremo a combattere. Tuttavia – lo voglio ripetere – deve essere evidente, sul piano politico e non solo della propaganda, che vi sono in campo proposte alternative alle scelte sin qui prevalse in Europa. Non è irresponsabile dire che bisogna uscire dalla gabbia dell’austerità e che una politica di risanamento non può essere seriamente perseguita senza sostenere la crescita e, quindi, senza una interpretazione più flessibile e intelligente dei vincoli sin qui imposti.
La crisi finanziaria ha portato alla luce la debolezza dell’impianto politico europeo, che, paradossalmente, è divenuto più fragile e inadeguato proprio in seguito a due grandi successi dell’Europa: l’allargamento e l’euro. Nel momento più alto dello sforzo di integrazione, sancito dalla nascita della moneta unica, è venuta a mancare quella spinta ulteriore che avrebbe dovuto dare alle istituzioni politiche la forza di guidare la nuova dimensione economica dell’integrazione. È venuto, così, in evidenza il fatto che la moneta unica, senza un coordinamento effettivo delle politiche economiche e di sviluppo, senza l’armonizzazione delle regole fiscali e degli standard sociali, senza un significativo bilancio federale dell’Unione, anziché essere il fondamento di una più forte integrazione, ha finito per accentuare gli squilibri e le diseguaglianze tra aree con diversi livelli di produttività e di competitività. La dottrina di Maastricht, applicata alla crisi, ha rivitalizzato, invece che annientare definitivamente, il virus letale dell’Europa: il nazionalismo economico.
Le classi dirigenti, e in questo senso anche la famiglia socialista deve riconoscere i propri errori, non hanno compreso, oppure hanno sottovalutato o rimosso, il fatto che l’allargamento dei confini dell’Unione coinvolgeva Paesi in gran misura estranei allo spirito europeista così come si era venuto definendo nella lunga collaborazione del dopoguerra, e privava di una parte della sovranità gli Stati membri, in particolare del potere fondamentale di coniare moneta. Tutto ciò richiedeva un salto di qualità verso l’unione politica, strumenti efficaci di governo e possibilità di decisione libera dal potere di veto di singoli Paesi. Richiedeva un maggior rafforzamento delle basi ideali e culturali dell’Unione, l’assunzione reale di quell’insieme di principi di libertà e di diritti individuali e collettivi che sono rimasti nella Carta di Nizza più come testimonianza di cosa potrebbe essere l’Europa, che come fondamento del suo agire effettivo. Anche per questo deficit di politica, la dimensione della governance economica ha preso il sopravvento, e l’illusione tecnocratica che si possa governare attraverso un insieme di criteri e di vincoli ha finito per prevalere e imprigionare l’Europa. (…)
Tecnocrazia e populismo sono diventati le due facce della crisi democratica dell’Europa: è il tema della democrazia che si presenta in tutta la sua forza dirompente. Esso mette a nudo l’esistenza di quel deficit democratico che è la caratteristica e la contraddizione più profonda del capitalismo globale. La democrazia si indebolisce anche perché il potere reale si sposta verso i centri della finanza internazionale. Questo finisce per svuotare di poteri e di ruolo gli Stati nazionali e la politica torna a essere dominata dall’ideologia, proprio perché spesso vuota di contenuti reali e di poteri effettivamente esercitabili. Spettava e spetta all’Europa colmare questo deficit democratico, sviluppando un potere sovranazionale in grado di ristabilire un primato della politica sull’economia. Invece l’Europa conservatrice e neoliberista si è ridotta ad amministrazione, burocrazia, tecnocrazia, incapace di proporre scelte reali e alternative possibili intorno alle quali mobilitare l’opinione pubblica. Così, i cittadini avvertono un senso di impotenza nei confronti di istituzioni e decisioni pur rilevanti per la loro vita, sulle quali, tuttavia, non sono in grado di esercitare né influenza né controllo. Allora come meravigliarsi che prenda campo la rivolta populista? Naturalmente, le risposte devono essere date nel merito dei problemi che riguardano la vita delle persone. Ma la condizione affinché questo possa accadere in modo efficace sta nel rafforzamento della dimensione politica dell’Unione. Molto si può fare nell’ambito dei Trattati esistenti, pur consapevoli che è matura l’esigenza di progettare, con gradualismo e realismo, un nuovo patto istituzionale tra i Paesi membri. Siamo convinti che, con i suoi squilibri, le sue asimmetrie e i suoi vuoti normativi, il Trattato di Lisbona non delinei ancora il quadro democratico di cui l’Europa ha bisogno. Tuttavia, esso rappresenta un progresso rispetto al passato, perché offre nuovi strumenti e lascia spazio sia a miglioramenti sia alla possibilità di un consolidamento della dimensione sociale e democratica, oltre che della proiezione internazionale dell’Unione. (…)
A queste proposte, va aggiunto il capitolo cruciale della governance della zona euro. È necessario rafforzare la sua dimensione politica e, nello stesso tempo, evitare che nasca una «Unione nell’Unione», facendo in modo che gli organismi dell’area dell’euro si collochino all’interno delle istituzioni comuni dell’Ue, nelle quali sono rappresentati anche Paesi che non condividono la moneta unica.

di Massimo D’Alema

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