Il mondo su un albero di limoni: i sogni e la tenacia per esaudirli – Dialogo con Francesco Pileggi (apostrofiasud.wordpress.com)

di Maria Teresa D'agostino, del 13 Luglio 2023

Un piccolo campetto di calcio e un torneo dal sapore epico, da onorare indossando la maglia di Beckenbauer. Un intero universo è racchiuso nello spazio di un albero di limoni e nei sogni di un gruppo di ragazzini, tirati su dalle mamme in solitudine, in un posto remoto del Sud Italia, con i papà a sbarcare il lunario in Germania, piccoli Telemaco, in attesa dei padri Ulisse. È il giugno del 1973 e lì il mondo arriva solo a tratti attraverso la radio, con il suo carico dirompente di notizie, mentre il desiderio è quello nato ai mondiali di Messico ’70: giocare con la maglietta dei grandi campioni. Per Francesco un’attesa lunga due anni, quanto il tempo che il padre emigrante aveva trascorso senza tornare a casa. Due anni per avere la maglietta numero 4 di Franz Beckenbauer, il “Kaiser”, che nell’epica partita Italia-Germania Ovest 4-3 correva “con la mano sul cuore”. Perché Francesco li aveva visti piangere Franz e i giocatori tedeschi e aveva capito che pure loro ce l’avevano il cuore e non era riuscito a toglierselo dalla testa. Quando mia madre indossò la maglietta di Franz Beckenbauer di Francesco Pileggi (Rubbettino) è un romanzo intriso di sudore, lacrime e gioia, di sentimenti individuali e collettivi senza tempo. Ne parliamo con l’autore, anche regista teatrale e film-maker, in questa intervista.

Come nasce questo tuo romanzo? Il libro nasce a Stoccarda durante una fuga dalla Calabria, che allora immaginai per sempre. Nasce dalla testardaggine mista a quella rabbia che porta con sé chiunque sia stato costretto ad andarsene, chiunque abbia sperato di cambiare qualcosa in Calabria, lottando per non essere cambiato a sua volta, per non entrare a far parte di quella categoria che nel libro definisco “Proci”, sì, la casta che occupò Itaca e la casa di Ulisse e che l’eroe omerico non sconfisse del tutto. A Stoccarda non conoscevo nessuno, lavoravo in un Kindergarten con bambini, realizzavo video con delle scuole, ma mi mancava il teatro. Una sera mi arriva una telefonata da Edith Koerber, direttrice del Theater Tri-bühne, per invitarmi a scrivere uno spettacolo.  Un’occasione per dimostrare se avessi ancora qualcosa da dire o se in realtà avessi davvero mai avuto qualcosa da dire. Nacque così Als meine Mutter Becknbauer Trikot trug, lo spettacolo che debuttò nel 12° Festival internazionale Sett, che si tiene nella città. In quel 2014, ironia della sorte, mi ritrovai nel cartellone insieme a Dario Fo (a cui il Festival era dedicato, insieme a Franca Rame già scomparsa) e la Compagnia di Emma Dante a rappresentare l’Italia, io che dall’Italia me ne ero scappato. Andò molto bene, mi proposero altri lavori. Poi, per scelte di famiglia, decidemmo di rientrare. Feci leggere quel copione che nel frattempo lo tradussi in romanzo, a degli amici. Piacque molto e mi spinsero a inviarlo a Rubbettino. La risposta del direttore responsabile Luigi Franco la conservo con cura. Lo stesso entusiasmo, che spinse allora Edith Koerber, lo ritrovai in quella risposta. Lo presi come un segno. Il romanzo contiene lati vissuti e molti rubati alla vita reale, alla storia di un periodo passato di cui ancora paghiamo prezzi, il tutto frullato con dosi necessarie  d’immaginazione.

Che storia racconta? Racconto di sognatori e dei loro tentativi di esaudire i propri sogni. Tra loro e il sogno c’è però la vita reale. Quella, bisogna in qualche modo oltrepassarla o tirarla anch’essa dentro il sogno. Il romanzo è ambientato negli anni ’70, ma arriva a toccare i nostri giorni, e in ogni caso ci sono molti nodi che ancora ci tengono stretti a quel periodo. Otto ragazzini sognano di giocare la loro prima partita del secolo, mentre da poco si era giocata quella vera in Messico, la semifinale del campionato del mondo, la celebre Italia – Germania 4-3. Se ne stanno su un albero di limoni che sta quasi al centro di quel loro campetto. Da lassù vedono passare Ulisse e i suoi compagni con una barca sulle spalle, direzione Itaca, ascoltano alla radiolina una “schifezza di musica” che non capiscono, The Dark Side Of The Moon, elaborano teorie cubiste, scoprono il sesso e il sesso scoprirà loro in avanti. Il sesso che appare e scompare attraverso censure nazionali come per Ultimo Tango a Parigi o sotto forma di mito, ma non se ne sta buono-buono. E quell’albero come un’astronave raggiungerà Salvador Allende e il suo litro di latte per tutti i bambini cileni, i rapitori di Paul Getty Jr.,  Paul Breitner e le madri di Plaza De Mayo, Pinochet insieme a Kissinger e Nixon, Jane Roe e la sua voglia di essere libera di scegliere se tenersi un figlio o no, Laslo Toth di reincarnarsi in Gesù Cristo, Martin Cooper l’inventore del telefonino, Philippe Petit e quel suo grande sogno a costo della propria vita: attraversare su una fune la distanza tra le due Torri Gemelle, senza rete e nessuna sicurezza, se non la propria abilità. E molto altro ancora, mentre la vita succede sotto quell’albero di limoni, mentre quei ragazzini aspettano di giocarsi la partita, ma anche il ritorno dei loro padri, quasi tutti emigrati all’estero.

Cosa significava in quegli anni essere figli di padri che emigravano per lavoro? Figli di astronauti! I nostri padri partivano a fine estate e rientravano l’inizio dell’estate successiva, se la loro missione non comportava rischi. A volte qualcuno restava in orbita, per sempre. Mio padre era un sarto, usciva di casa per andare al lavoro a duemila km di distanza. Allora non capivo perché dovesse farlo così lontano da noi, impiegare ogni volta lo stesso tempo di un viaggio nello spazio. A ogni rientro trovava tutto cambiato, perdendo per sempre quei momenti che costruiscono il cambiamento, la crescita, ma anche il bene, gli affetti. Cambiavano pure le basi di lancio degli astronauti, sempre più grandi, sempre più affollate. Da bambino però, di quell’assenza non ne fai un dramma, specie se nel quartiere hai dei punti di riferimento, come i bottegai a farti da baby-sitter e insegnarti qualcosa, i vicini con porte e finestre sempre aperte a darti un’occhiata quando tua madre era al lavoro. La mancanza a volte l’avvertivi all’uscita da scuola, quando ad aspettare molti dei tuoi compagni di classe vedevi i loro padri. Ma potevamo fare esperienze che a molti non era permesso, come perdersi una giornata intera in montagna o restare a giocare fuori fino a tardi la sera, nessuno a gridarci dalla finestra di rientrare, i nostri padri nello spazio, le nostre madri sempre impegnate a sbarcare il lunario. Sì, dovevamo farci bastare un abbraccio per un anno, a volte per due.

Oggi vediamo molte donne che dall’Est arrivano in Italia in cerca di lavoro, lasciano i figli nel loro Paese. E ci sono pure tante donne che dal nostro Sud partono verso il Nord per lavorare, spesso senza poter portare la famiglia con sé. Cosa ne pensi? La caduta di Ceausescu, poi la guerra nei Balcani, le rivolte in Ucraina prima e la nuova guerra ora, così come in Cecenia hanno provocato negli anni milioni di orfani bianchi, mariti abbandonati, nonni anziani a cercare di supplire quelle assenze dei figli e il fenomeno non pare arrestarsi. Da noi ora tocca alle donne del Sud, specie in ambito scolastico. Ricevono incarichi al Nord, spesso sono madri, costrette ad accettare l’incarico nella speranza di un avvicinamento futuro. Sappiamo bene che uno stipendio di un lavoratore della scuola non ti dà la possibilità di vivere dignitosamente neppure da single in una città del centro-nord. Si mandano al macero gli affetti, e sono i bambini a pagare i prezzi più alti. Ecco credo che i governi abbiano messo da sempre in secondo piano questi aspetti. Cresceranno generazioni con queste mancanze e non c’è niente di rassicurante.

Com’è stata la tua esperienza in Germania? Cosa ti mancava della Calabria e cosa ti manca oggi della Germania? Ho trovato lavoro mostrando soltanto la rassegna stampa e per giunta in italiano. Mi presentai al municipio di Bietigheim-Bissingen e mi ritrovai in un Kindergarten per iniziare. Poi venne il teatro, i video, frequentai una scuola di pedagogia Insomma nessun problema  dal punto di vista lavorativo. Della Germania, mi manca l’attenzione che ha verso le nuove generazioni, la politica sul lavoro giovanile, gli aiuti alle famiglie, i parchi giochi spettacolari in ogni quartiere, gli asili nido, be l’elenco sarebbe lungo. Della Calabria, mi mancava ciò che abbiamo sotto gli occhi, a cui spesso non si dà valore, per abitudine o perché a volte non si hanno gli strumenti per leggerla la bellezza. È una parte importante del libro la bellezza, la ricchezza dei nostri luoghi che si traduce in mancanze spesso così forti da tramutarsi in patologie.

Scrittura, teatro, film, ti esprimi in molte forme. A quale ti senti di appartenere di più? Ogni ambito è un’occasione per mettersi in gioco con la narrazione. In fin dei conti è tutto un unico fare, raccontare secondo un punto di vista che spero continui a provocare interesse. Il romanzo è l’ultimo approdo, a dire il vero è venuto quasi per caso, ma sono molto contento dei risultati.