Da Studi Cattolici
Il tema della struttura e della forma del diritto «non è pareggio da piccola barca», per citare Dante. L’«ardita prora» che con esso si è recentemente misurata è il testo di Alessandro Catelani, Il diritto come struttura e come forma (Rubbettino, Soveria Mannelli 2013, pp. 298, euro 15): il testo raccoglie, con ampiezza argomentativa e tematica, il bagaglio dottrinale di un’impostazione di pensiero di stampo normativista, mostrando come essa sia ancor oggi capace di offrire categorie di indubbia utilità a chi si misura con il fenomeno giuridico con l’intento anzitutto di comprenderne e utilizzarne le institutiones e i meccanismi principali in modo pragmaticamente efficace ma non privo di supporto teorico. Nella sua analisi, collocata all’interno di una prospettiva di pensiero che tende a rimarcare con forza la distinzione fra norma e fatto sociale, fra diritto e società, pur ricordandone le necessarie connessioni, Catelani aiuta a leggere il fenomeno giuridico in chiave teorico-generale, misurandosi con numerose elaborazioni – più o meno recenti – che in tal senso provengono tanto dalla dottrina filosofico-giuridica quanto da quella giuspubblicistica. Tale raffronto aiuta a vedere alcune complesse declinazioni entro cui si dibattono dialetticamente le riflessioni maturate entro le tradizioni di pensiero positiviste, realiste e giusnaturaliste. In questo percorso, il rapporto tra la «forma giuridica» e le relazioni intersoggettive da essa disciplinate, fra la struttura che presiede il diritto e la società che con tale diritto interagisce, costituisce il fil rouge della riflessione dell’Autore, senza che questa attenzione alla forma si traduca in un radicale formalismo giuridico.
Oggi ci troviamo tuttavia dinnanzi a profondi cambiamenti del fenomeno giuridico, che rendono difficile spiegare il diritto entro il solo riferimento categoriale normativista, soprattutto di matrice giuspositivistica, che tende a identificare la giuridicità con la norma posta, caratterizzata da coercitività, eteronomia, e individuabile sulla base di elementi fondamentali di carattere formale. Saremmo, insomma, di fronte a una crisi che diversi autori ascrivono nelle sue origini anche ai limiti concettuali di tali categorie di pensiero, divenute dominanti nel corso della modernità, e ora ampiamente discusse. L’ermeneutica giuridica, per esempio, ha facilitato lo sviluppo di una maggiore coscienza critica circa la complessità che presiede l’attività del giurista, in particolare nella problematica lettura che essa comporta di «fatti», «norme», e del loro raccordo, implicando una costante attività interpretativa da parte del giurista. Quest’ultima, a sua volta, difficilmente può essere confinata entro i modelli metodologici elaborati dalla tradizione giuridica giuspositivista, e anzi si apre a elaborazioni sensibili a una lettura del diritto attenta ai profili relazionali e argomentativi che ne innervano la struttura stessa, evidenziando come quest’ultima non possa essere risolta entro un concetto puramente formale, né considerata come una mera attività «applicativa» della fattispecie concreta a quella astratta.
A tali fattori di complessità si sono aggiunti profondi mutamenti che nel panorama contemporaneo hanno interessato la prassi giuridica, costringendo la riflessione teorica a interrogarsi sulla «tenuta» di categorie precedentemente assunte come valide anche in ragione del fatto che esse «funzionavano» particolarmente bene tanto nella «produzione» quanto nella «lettura» del fenomeno giuridico.
Il sistema ordinato concepito dalla grande tradizione giuspositivistica si trova, per esempio, a dover affrontare l’affermarsi di nuove fonti e modalità di produzione del diritto: si pensi al ruolo sempre più evidente della lex mercatoria internazionale, e ancor più alle modificate condizioni di produzione delle norme all’interno degli Stati, soprattutto dove, come in Europa, sono coinvolti in un percorso di «integrazione» a seguito del quale si immettono negli ordinamenti nazionali norme di varia natura, originatesi al di fuori dall’ordinamento nazionale eppure destinate a produrre effetti e mutamenti anche profondi al suo interno.
I mutamenti in atto emergono ancora con più pregnanza se si considera che la premazia tipicamente accordata dagli ordinamenti continentali alla norma prodotta dal legislatore sta fortemente cedendo il passo a un «formante giurisprudenziale», che pone l’attività del giudice a primaria fonte di innovazione del diritto. Un aspetto, quest’ultimo, che pone interrogativi molteplici, anche in tema di sovranità, ancor più evidenti quando tale formante origina dall’attività di Corti (si pensi alla Corte europea dei Diritti dell’Uomo) che, pur operanti al di fuori del sistema giudiziario nazionale, sono in grado di produrre decisioni immediatamente e mediatamente produttive di effetti sul diritto interno, il quale ne può risultare anche significativamente modificato.
Non da ultimo vanno considerati gli spazi sempre più ampi che vengono demandati a una definizione autonoma della controversia, come avviene grazie alla mediazione o alla negoziazione, nelle quali la positivizzazione della norma del caso non può essere letta solo alla luce di un concetto eteronomo di norma giuridica6.
Non mancano, infine, casi, nei quali decisioni giuridicamente vincolanti seguono all’attività valutativa o propositiva di «agenzie» private (si pensi per esempio alle agenzie di rating o ad altri soggetti a cui va ascritta la produzione di norme tecniche destinate a imporre standard internazionali condivisi), la quale de facto risulta capace di muovere la volontà politica – e con essa la produzione giuridica – senza che sussista una spiegazione formale alla cogenza delle «norme» che così vengono (pro/im)poste, o comunque immesse entro atti normativi.
Eppure, nonostante l’emergere di simili crepe – di cui gli esempi sopra menzionati non sono che una alquanto parziale e fugace esposizione – il congedo dalle categorie elaborate entro la tradizione del positivismo normativista è ben lungi dal rivelarsi definitivo. Anzi, per mutuare un’immagine originariamente pensata per descrivere la condizione post-moderna, tale congedo sembra tradursi in un «lungo addio» in atto, ma non ancora (o non mai?) destinato a produrre una definitiva separazione.
Al di là di una possibile spiegazione contingente, ascrivibile ai tempi di «gestazione» dei cambiamenti in atto, occorre forse rendersi conto che – pur nella loro parzialità – tali categorie costituiscono un patrimonio che ha profondamente informato l’attività del giurista, le sue «narrative di senso», e, come Catelani ci aiuta a comprendere, tuttora è fortemente presente nella teoria e nella prassi giuridica come riferimento fondamentale, per quanto da accogliere con coscienza critica e spesso con beneficio d’inventario.
Pertanto, sebbene alcuni «strappi nella tela» della costruzione teorico-generale normativistica permangano irrisolti, invitando i filosofi del diritto a spingersi oltre nelle loro elaborazioni, è tuttavia certamente meritorio ricordare – come rammenta abilmente Catelani – che una «tela» pur sempre esiste, vive e si dibatte ancora, sebbene non senza qualche difficoltà, nel contesto contemporaneo. Proprio per questo può essere erroneo tanto indulgere nell’evidenziare, talora in modo affrettato, il «congedo definitivo» da certi modelli di pensiero, quanto non rimarcare criticità e mutamenti che impediscono di ricorrere a tali riferimenti categoriali considerandoli esaustivi.
In questo senso, l’attenzione che Catelani pone al diritto come forma e come struttura, ma anche come corpus vivente e in costante raffronto con la società, costituisce senza dubbio un invito al giurista teorico e pratico a rammentare il noto detto di Giavoleno secondo cui «omnis definitio in jure periculosa est», e proprio per questo una riflessione critica da parte sua si rivela tanto necessaria quanto incessante. Ancor più se condotta – come nel caso del testo a cui ci riferiamo – con ricchezza di dottrina e con rispetto per le tradizioni di pensiero con cui ci si confronta.
di Federico Reggio
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