Pasquale Iorio è stato un testimone dell’enorme cambiamento sociale ed economico che ha interessato il Mezzogiorno a partire dagli anni Sessanta dello scorso secolo e questo libro (Una vita per i diritti. La cultura e lo sviluppo locale, Rubbettino) è, in primo luogo, un tentativo di raccontarne le ragioni e la genesi. Nato e cresciuto alla periferia di una città come Capua – antichissimo porto romano sul Volturno, perno militare, riferimento antifascista nei tempi bui della dittatura, centro operaio e culturale di enorme valore – Iorio osservava gli effetti dell’industrializzazione indotta dall’intervento straordinario con gli occhi della speranza e del riscatto. Anzi, nell’impatto con quei processi elaborava la propria coscienza critica, partecipava alla stagione dei movimenti sessantottini, incontrava il partito comunista e faceva la propria scelta di vita per il sindacato e la politica.
Ma il vero valore di questo libro non sta tanto nel, comunque, piacevole racconto autobiografico di un importante dirigente del movimento operaio campano e di Terra di lavoro. Quello che davvero colpisce è il ribaltamento che Iorio giunge a compiere a partire dalle premesse originarie. Se la sua vita pubblica è stata tanto profondamente segnata dall’abbandono della civiltà contadina, dall’omologazione alla società di massa e dei consumi da parte di una provincia come quella casertana, improvvisamente trasformatasi in una sorta di Brianza del Sud (come pur si disse), la fine di quella lunga e importante fase generava un ripensamento e un approccio completamente diverso. Tutto l’impegno dell’estrema maturità – gli ultimi incarichi di lavoro, poi la scelta di dedicare la propria quiescenza all’Associazione per lo sviluppo locale e alla rete delle Piazze del sapere – è infatti dominato dal recupero delle vocazioni territoriali. Dall’idea, cioè, che non sia possibile vivere senza fare i conti con il valore e con tutti i limiti di una modernizzazione industriale segnata dal volano della grande industriale energivora, cattedrali nel deserto affamate di risorse ambientali che avrebbero dovuto generare un diffuso e autopropulsivo tessuto di piccole e medie imprese. Di fronte alla chiusura di quel ciclo, non basta rivendicare un nuovo impegno meridionalista, ma ricalibrarlo mettendo al centro la difesa dei prodotti tipici, dei beni culturali, dell’irripetibile ricchezza che si rileva nella prossimità delle filiere, delle occasioni spesso trascurate e nascoste, dei saperi più tradizionali ed estranei all’omologante civiltà industriale.
Da questo punto di vista, il libro non rappresenta affatto un bilancio del proprio passato, quanto un programma per il futuro. Elemento costante tra questa ricognizione tra ciò che è stato e l’attrezzarsi per il domani, è senza dubbio la costante battaglia per la legalità, in una terra certo martoriata dai poteri criminali e tuttavia, come ci ricorda Iorio con esemplare schiettezza, attraversata da straordinarie esperienze di resistenza in nome dei diritti, dell’accoglienza e della dignità umana. In fondo, è proprio in provincia di Caserta, con il campo di solidarietà di Villa Literno nell’agosto 1990 che iniziava il moderno movimento antirazzista. Era qui che esplodevano le contraddizioni, ma era anche qui che la società civile e la politica reagivano, dimostrando tutta la pochezza di certe analisi antropologiche sul Mezzogiorno.
È proprio questo il messaggio essenziale del libro: esiste un Sud che resiste, che lo fa da sempre, che non ha mai dimenticato le proprie virtù culturali e civili. Banfield e Putnam permettendo.
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