Con questo nuovo libro dedicato a don Pino Puglisi, proclamato beato nel 2013, l’Arcivescovo di Catanzaro-Squillace monsignor Vincenzo Bertolone, che della causa di beatificazione del sacerdote siciliano è stato postulatore, si pone davanti al problema particolarmente acuto e attuale del come fronteggiare l’iniquità sempre presente nella storia umana ed in particolare quelle forme del male così terribili per la struttura e per le atrocità realizzate che sono le mafie. Come porsi insomma davanti ai mafiosi e in generale alle mafie, tenendo poi conto di quell’ambigua contiguità che questi fenomeni esprimono verso il mondo religioso?
Il testo parte da una considerazione generale: «Forse non basta sospendere le espressioni esteriori e rituali delle tradizioni devote locali, stringere le maglie nei confronti di certe persone che chiedono di fungere da padrini nei sacramenti e da testimoni nelle nozze cristiane; e neppure, forse, ribadire scomuniche di fatto, anche tutto questo ha ormai consentito di superare certe atmosfere, se non proprio di reticenza, almeno di “distanza mentale” rispetto al fenomeno pervasivo delle mafie. Non bisognerà evitare che donne e uomini di mafia non trovino di meglio, per ordire i propri traffici loschi, che ricorrere ancora a simboli, date e riferimenti religiosi, a immaginette di angeli e santi del calendario cattolico, ovvero di utilizzare ai loro scopi la religione. Come scrivere già don Luigi Sturzo, come credenti nel Dio uno e trino, si deve contribuire a eliminare l’inquinamento morale dell’Italia, le piaghe cancrenose della patria».
Ed è proprio a questo livello, a questo livello molto decisivo di contrasto con l’azione dei mafiosi e delle mafie che emerge in tutta la sua forza e pregnanza quello che in tale saggio viene definito “il metodo Puglisi”. Monsignor Bertolone accompagna così il lettore verso la scoperta e definizione di un tale modello di azione pastorale in un percorso scandito in quattro capitoli. Nel primo di essi l’autore si sforza di delimitare e comprendere il fenomeno complesso e molto variegato delle mafie; nel secondo si interroga sul perché di questa presenza così ampia e «perfino negli ambienti e nelle persone che riterremmo immuni e diverse dal cattivo seme», provando tuttavia ad alimentare la fiamma della speranza e indicando nella dimensione educativa il luogo dove può davvero spuntare il giusto atteggiamento contro ogni seduzione del male; nel terzo capitolo – quello centrale dal nostro punto di vista – si interroga proprio su ciò che don Puglisi ha fatto e soprattutto su ciò che don Puglisi è stato nel fronteggiare il fenomeno mafioso così pervasivo nei luoghi del suo impegno pastorale, che poi tragicamente terminò nel suo martirio; l’ultimo quarto capitolo getta uno sguardo sull’impegno attuale della Chiesa nei confronti delle mafie individuandone i nodi operativi e pastorali.
Il terzo capitolo, ora, è quello sul quale vorremmo concentrare questa nostra presentazione di un testo impegnativo ma nello stesso tempo evocativo, capace pertanto di restituirci tutta la bellezza e diremmo quasi semplicità umana ed evangelica del beato Puglisi, dalla cui azione e presenza pastorale il presule dell’Arcidiocesi di Catanzaro-Squillace ora deduce un paradigma, uno stile, un metodo appunto attraverso il quale fronteggiare il fenomeno delle mafie e forse più in generale la presenza del male nella storia umana.
Riassumendo la storia del martirio del sacerdote siciliano, così egli scrive: «In Puglisi c’è come la traduzione operativa dei criteri evangelici che consolidano e rinforzano la crescita del buon seme. In lui abbiamo una sintesi perfetta di uomo di fede, che non resta inerte di fronte alla mala pianta, ma invita gli esponenti della mafia a convertirsi, a parlare, a dialogare per cambiare. Egli cammina, e fa camminare i fedeli dalla sua parrocchia di Brancaccio, sulla via della santità genuina, diffusa mediante i Cenacoli del Vangelo, sia nell’ordinarietà della vita delle case della parrocchia che nella straordinarietà delle Missioni popolari. È l’uomo che – convinto del primato dell’evangelizzazione, dell’urgenza della formazione allo spirito di fede, del ritorno alla Parola di Dio – promuove una prassi che compie un’opera di santificazione di tutto ciò che è creato e umano, ben distinguendo fra fiori e serpenti. La sua incessante opera di formazione della gente affidata alle sue cure sacerdotali, di formazione tout court cristiana, piuttosto che una specifica azione “contro la mafia”, diviene, di per sé, ontologicamente anti-mafiosa, non tanto perché è un’azione-contro, ma perché è un’opera ordinaria di prevenzione e di lotta effettiva a ogni male che alligna nel campo degli esseri umani».
Già da queste poche note emergerà, soprattutto in coloro che ancora non hanno conosciuto più da vicino l’esperienza di vita di don Pino Puglisi, il desiderio di accostarsi a questa figura, di coglierne quel profumo di Vangelo che libera e che fa crescere in libertà e che poi avrebbe dovuto armare contro di lui la mano dei mafiosi. Sotto questa luce il libro del vescovo Bertolone appare un efficace strumento.
La sua linea principale resta però appunto quella di indicare una metodologia adeguata per continuare nell’oggi ciò che Puglisi è riuscito così efficacemente a realizzare. Per l’autore le parole che sostanziano un tale agire e quindi ciò che egli ora può a tutta ragione definire come “metodo Puglisi” sono essenzialmente tre: legalità, iniziativa e creatività. «[…] sono queste le regole che don Pino interpreta nel suo metodo in senso dinamico; regole che presuppongono spirito d’iniziativa e creatività da parte dei cristiani, i quali, pur non essendo del mondo, sono nel mondo, nei quartieri, nelle città, nei territori parrocchiali e negli Stati».
Questo ci pare il cuore di questo interessante saggio, come conferma un passaggio della Prefazione al volume, a firma di Santi Consolo, Presidente del Dipartimento di amministrazione penitenziaria, in cui si sottolinea che proprio «grazie a don Puglisi la Chiesa ha formalizzato uno stile e un metodo che il parroco della chiesa di Brancaccio metteva in opera quotidianamente, pur senza essere un prete “contro”».
Se questo è allora il centro pulsante del saggio qui presentato, si dovrà ricordare che a tutte le riflessioni sin qui riportate fa da sfondo, come del resto il titolo del volume ricorda, una continua e acuminata meditazione, da parte di monsignor Bertolone, sulla parabola evangelica della zizzania. Si tratta di una parabola che – come afferma Enzo Bianchi nella sua Postfazione al libro – «non è solo una tra le più enigmatiche del Vangelo, ma anche una tra le più sommessamente scandalose […]. L’autore è ben consapevole di come si tratti di una “parola dura” di Gesù, ma non si esime dall’applicarla a un caso-limite come quello della lotta alla mafia».
Vorremmo concludere ora con un altro piccolo ma denso passaggio sempre dalla Postfazione di Bianchi, che sigilla in modo degno questo lavoro dell’Arcivescovo di Catanzaro-Squillace: «È folle pensare di fronteggiare le mafie con la forza disarmata del Vangelo? Forse, ma di questa stessa follia che chiede di amare i nemici e di pregare per i persecutori, di odiare il male ma amare le persone, anche quelle che sembrano aver smarrito la loro appartenenza all’umanità. Solo così la presenza dei cristiani nella compagnia degli uomini si rivelerà sale e luce; solo così vedremo germogliare nel campo del mondo cieli nuovi e terra nuova, dove l’uomo non sarà più lupo per l’uomo».
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