‘Carlo Antoni, un filosofo liberista’ è il bel saggio, edito da Rubbettino, di Francesco Postorino, Ph.D in filosofia politica e morale, che tra Reggio Calabria e Parigi ha approfondito il pensiero di un vero e proprio Carneade della filosofia politica italiana novecentesca, il quale, dagli anni ’40 alla fine degli anni ’50, ha dato corpo ad una originale interpretazione progressiva e liberante del liberalismo e del liberismo, purtroppo poco nota.
Riflessione che lo inserisce a pieno titolo in quella corrente culturale minoritaria e vivacissima della temperie liberale che da Salvemini giunge a Marco Pannella. E proprio del Partito radicale di Mario Pannunzio il triestino Carlo Antoni fu uno dei fondatori, aderendo alla diaspora di sinistra del partito liberale (ri)fondato da Croce.
E Croce fu il maestro cui Antoni riconobbe, tra l’altro, la specificità di uno storicismo politico che aveva essenzialmente il senso di depoliticizzare, demitizzandola, la trascendenza e l’utopia astratta , e per alcuni scientifica, capace solo di asservire le libere dinamiche dello spirito umano – e, quindi, del reale – ad un progetto, ad una pianificazione “intelligente” che prometteva la realizzazione di un prossimo paradiso terrestre, scevro dai conflitti e dall’alea della contingenza politica ed economica.
È evidente che tale prospettiva filosofica e di metodo, contrapposta al sostanzialismo del Volk, della Nazione, della Classe, non poteva che sorgere dall’alveo di quel liberalismo – sia continentale che anglosassone – che all’ideologismo prometeico ha sempre contrapposto quelle “ignoranze epimeteiche” riassunte in criteri quali l’eterogenesi dei fini, il risultato pubblico ed inintenzionale delle azioni private intenzionali, la sempre possibile revocabilità delle scelte, la narrazione di una “mano invisibile” operante nel mercato non come provvidenza che tutto sistema dall’esterno ma come spontaneo risultato soddisfacente per tutti che viene generato dallo scambio, dal contratto, dalla cessione e dall’acquisto che crea valore e crescita.
Ma, lungi dall’accontentarsi della mera e pacifica osservazione compiaciuta del reale coinvolto nel passaggio storico dal bene al meglio, Antoni, figlio del Secolo Breve e delle sue tragedie dissacranti, fa un passo avanti, o meglio, come ci suggerisce l’acuto Postorino, un passo indietro, quasi genealogico – e qui sta la radicalità dell’approccio – riscoprendo Kant e il suo dover essere, in modo da arricchire l’approccio storicista con il valore liberante della scelta responsabile e decisiva di un Individuo che ritorna al centro della politica.
In questo contesto ideale si comprende bene come il suo liberismo economico – sempre contrapposto alla potenziale via della schiavitù insita nel collettivismo – possegga una profondissima carica etica concentrata, appunto, nel rifiuto di ogni agnosticismo ed indifferentismo e mobilitata da una coscienza sempre improntata – senza garanzie veritative e senza paracadute religioso – a risolvere la frattura moderna tra Sein e Sollen, tra essere e dover essere, con l’impegno vivo per la libertà e la democrazia.
Per tutto questo fu naturale per Antoni, nel tentativo di combattere la fuga retriva di un partito liberale sempre meno crociano ed ormai avviato in una politica di mera conservazione di privilegi, optare per il partito radicale di Pannunzio e degli intellettuali raccolti sotto l’egida del Mondo; fu, in breve, il peculiare tentativo – insieme a quelli già tentati, uguali e diversi, di Salvemini, di Gobetti, dei fratelli Rosselli, di Ernesto Rossi, ma anche di Calogero, di Sturzo, di Röpke e di Adenauer – di strutturare anche filosoficamente una terza via che sapesse vivificare la complessità della paradossale esperienza umana, sempre in bilico tra vocazione giusnaturalistica, afflato morale e concretezza storica.
Una terza via per altri versi ma non in maniera così distante successivamente incarnata tanto dall’eterodosso Pannella che dall’eretico Blair alle prese con i totem del vecchio Labour, che è sempre stata combattuta aspramente, in tempi differenti, e, forse, anche oggi, dalle chiese politiche in campo, da chi ha sempre temuto la concorrenza destabilizzante del pensiero libero e pragmatico tanto nel mondo operaio che in quello borghese.
Non per caso nel leggibilissimo saggio di Postorino è richiamato un carteggio del 45 tra Croce e il liberal-socialista Guido Calogero, impegnato con il Partito d’Azione, in cui il filosofo della Religione della Libertà rimproverava a Calogero la “formula oscura”, appunto, dell’ossimoro proprio della terza via, invitandolo a non occuparsi di liberalismo ma di agire solo “per restaurare ed ammodernare il socialismo riformista”.
Più o meno con la stessa incomprensione interessata verso le opzioni terze e libere – con riferimento al 1957, ad un anno quindi dalla fondazione del Partito Radicale – Eugenio Scalfari (allora tra i giovani fondatori del PR) ha raccontato qualche giorno addietro su Repubblica, nell’occasione di un articolo in ricordo di Alfredo Reichlin, di un incontro personale con Togliatti durante il quale il capo dei comunisti italiani gli chiese, appunto, della collocazione della nuova forza. A fronte dell’orgogliosa rivendicazione di essere “liberali di sinistra”, il Migliore non ebbe dubbi a troncare lo spirito kantiano e innovatore del giovane Scalfari: “L’alleanza con i socialisti è anomala perché – disse – gli stessi, nell’ambito di un approccio classico, dovevano comunque continuare a rappresentare, pur in modo diverso dai comunisti, una sinistra strettamente marxista, chiamata nei momenti fondamentali a fungere da alleato stabile per il partito rivoluzionario.
Quanto gli approcci ortodossi su rappresentati abbiano concorso – insieme al destino “centrale” e senza alternative democratiche della DC – al rallentamento del progresso politico italiano lungo la direttiva della libertà e della giustizia non è oggetto del saggio su Antoni qui presentato, ma uno dei tanti interrogativi arricchenti che da queste pagine paradossali e feconde promanano.
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