da Il Giornale del 21 Novembre
Leggendo il recente, aureo, libretto di Corrado Ocone “Liberalismo senza teoria” (Rubbettino, pagg. 122, euro 10) si rimane ammirati per la competenza con le quali lo studioso affronta le grandi questioni e i più importanti pensatori del liberalismo moderno e contemporaneo, da Montesquieu a Immanuel Kant, da Wilhelm Humboldt a John Stuart Mill, da Piero Gobetti a Benedetto Croce e Luigi Einaudi, da Hannah Arendt a Norberto Bobbio, non senza significativi cenni all’opera di altri classici come Tocqueville, Isaiah Berlin, Carlo Antoni.
Il liberalismo di Ocone è «senza teoria» giacché è «un metodo e non un sistema»: è un «liberalismo dialettico, dinamico, storicistico», una «concezione del mondo e della vita». Ocone giustamente fa rilevare come i neo-liberali odierni prefigurino astratti modelli di razionalità, fondati su un homo oeconomicus che non è mai esistito, ignorando l’invito del filosofo al quale tutti loro tributano incensi, Norberto Bobbio, ad «andare a scuola da Croce, ma non dal Croce filosofo della politica, ma da quel Croce che non si stancò mai dall’insegnare che il filosofo puro è un perdigiorno e che la filosofia non nascente dal gusto e dallo studio dei problemi concreti è vaniloquio se non addirittura sproloquio». Un liberalismo che non faccia i conti con la storia e con le sfide che essa impone, che sposi la causa del progresso senza preoccuparsi del terreno concreto in cui dovranno impiantarsi le nuove istituzioni politiche, è votato allo scacco.
Il discorso di Ocone non fa una piega e, tuttavia, non si riesce a evitare una sensazione di disagio. La stessa che il credente prova leggendo il celebre saggio di Benedetto Croce, “Perché non possiamo non dirci cristiani”. Se il liberalismo si identifica con la laicità e se «le virtù del laico – con le parole di Bobbio – sono il rigore critico, il dubbio metodico, la moderazione, il non prevaricare, la tolleranza, il rispetto delle idee altrui, virtù mondane e civili», cosa ne rimane fuori se non il dogmatismo e l’intolleranza? Se siamo dinanzi a una «dottrina atipica, non assimilabile, ad esempio, a ideologie come il comunismo e il cattolicesimo» giacché esso non è «null’altro che un’esigenza che vive nella storia e che ogni volta nella storia va ridefinita, individuando concretamente (ma anche sempre provvisoriamente e imperfettamente) le adeguate e parziali risposte alle esigenze di libertà che via via maturano», ha ancora senso parlare di una categoria politica e non, invece, dello spirito stesso dell’Occidente, che può assumere diverse configurazioni teoriche, culturali, giuridiche, istituzionali?
Pur essendo più vicino a Raymond Aron che a Friedrich von Hayek, ritengo che ci sono punti fermi su cui un liberale debba tener duro: l’individuo, lo stato limitato, i diritti civili e politici, la divisione dei poteri, il mercato, la proprietà privata. Possono esserci momenti nella vita dei popoli in cui non è possibile salvaguardare tutti i valori ma è nelle «scelte tragiche» che acquista senso disporsi sulla barricata liberale piuttosto che su quella socialista. Margaret Thatcher lo fece: tra la ripresa dell’ economia inglese e il ridimensionamento del Welfare State optò per la prima – una decisione eroica, ispirata a valori rispettabili come erano rispettabili i valori dei suoi oppositori laburisti. È questo il liberalismo che preferisco: non la falsa conflittualità azionista, per cui tutte le cose buone vanno sempre insieme – sicché non c’è libertà senza eguaglianza e viceversa-, ma il crudo realismo di chi sa bene che la tragedia del vivere sta nel dover sacrificare, talora, un bene ritenuto minore in base alla propria «filosofia» ad un altro ritenuto maggiore. Lo statista liberale che procede a tagli chirurgici, per ristabilire un corretto funzionamento del mercato, può vedersi accusato di «dogmatismo», di scolasticismo ma, a volte, è la serietà della vita che esige la durezza teutonica.
di Dino Cofrancesco
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