Da Il Mattino del 9 aprile
Il liberalismo è umanesimo della contemporaneità. Persino il socialismo, quando ha provato a raccontarsi come un umanismo, ha ripercorso criticamente le stesse tappe, si è fermato alle medesime stazioni dell’individuo moderno, solo e sociale nello stesso momento, e ne ha ricavato un preteso diritto alla superiorità che cercava di imporsi per quantità ed eventuale efficacia delle soluzioni – la libertà sottratta al bisogno materiale, la libertà per tutti- ma non per novità delle domande, delle attese in esse contenute.
Di questo umanesimo, che circola nelle vene dell’Europa da quando essane costruisce l’alfabeto e la sintassi nelle prove tutt’altro che tranquillizzanti delle sue rivoluzioni, parla Corrado Ocone in questo suo ultimo bel libro, Il liberalismo nel Novecento (edito da Rubbettino, si presenta lunedì alle 17 per la Fondazione Cortese alla Società di Scienze Lettere e Arti di via Mezzocannone), dove, appunto, l’accento è messo sull’ultimo tratto di una storia assai più lunga e su alcuni autori – dall’obbligato Benedetto Croce ai meno scontati Oakeshotte Hayek, fino ai vertiginosi Popper e Berlin – che ne hanno scandito il cammino alquanto accidentato e contraddittorio lungo tutto il secolo che si è da poco concluso.
Ocone – lo ripete anche di sfuggita nelle pagine di questo libro – non ama la distinzione fatta proprio da Croce tra liberalismo e liberismo. Se ne comprendono le ragioni, ma egli stesso non potrà non avvertire che gran parte delle contraddizioni e delle accidentalità del percorso novecentesco del liberalismo, nascano proprio da una indistinzione tra i due termini (e dunque dai continui e spesso ambigui travasi reciproci) e che, pur nella sua intrinseca fragilità, la separazione indicata da Croce libera una quantità enorme di energie per il pensiero liberale e lo mette nelle condizioni, appunto, di essere quell’umanesimo dei tempi moderni che altrimenti, zavorrato dalla sua determinazione storica, il liberismo e l’economia di mercato, esso non riuscirebbe, anzi meglio, non sarebbe mai riuscito ad essere. Se lo è stato e lo è, è in virtù di quell’aria di libertà libera che circola fresca nelle pagine di questo libro, per quel pensiero intimamente non ideologico riassunto nella frase di Oakeshott che è felicemente riportata nel frontespizio: «Non sono quelli che vedono lontano, né coloro che sono inclini al pensiero e agli entusiasmi di pensiero che possono guidare il mondo. Le grandi conquiste sono ottenute nella nebbia mentale dell’esperienza pratica. L’ultima cosa che possiamo desiderare è che i re divengano filosofi».
Anche e soprattutto nel Novecento, dunque, il liberalismo ha nel razionalismo, di tradizione settecentesca, e nel più recente scientismo positivista, i due avversari da combattere, le due teleologia che in tempi e informe diverse ma simili, hanno impedito e potranno impedire la comprensione e la percezione di quello spazio pieno di libertà che è il processo storico non sovraccaricato da cause meccaniche o da finalità inevitabili. La natura pratica del liberalismo, il suo aderire senza altro aggiungervi al sinuoso, faticoso procedere dei soggetti individuali nel tempo e nello spazio che ad essi è dato, avvicinalo storicismo integrale di Croce alla destrutturazione della verità scientifica che è in Popper, al liberalismo romantico, un po’ kantiano, un po’ vichiano, che è in Isaiah Berlin. E Ocone sa restituirci bene quella emozione che prende ogni grande liberale nel vedere il «legno storto» – per usare l’espressione nota che Berlin, appunto, prende in prestito da Kant – dell’umanità non farsi dritto, ché mai esso lo potrebbe, e nemmeno farsi diabolicamente ancor più curvo, ma provare ad accomodare quella forma, e accomodarsi in quella forma in modo che essa assuma una sorta di rettitudine ideale che non è nella cosa, ma è nella intenzione.
Il liberalismo diventa così una filosofia della vita? Ocone non lo scrive, ma molte pagine di questo libro suggeriscono questa direzione. Del resto, attraversando un secolo così drammaticamente vitalista come è il Novecento, come avrebbe potuto un pensiero così intimamente poroso perché intimamente storico qual è, appunto, il liberalismo, non avere la tentazione, cioè meglio il coraggio, di misurarsi con riflessioni che in maniera più temeraria, forse inutilmente temeraria, pretendevano esse pure di misurarsi, spoglie di ideologia, con il fluire concreto dell’esistere? In fondo – per fare un esempio – il rapporto tra Benedetto Croce e Thomas Mann, e le loro inquietudini per le sorti della civiltà europea, è tutto qui.
Attraversare il Novecento significa pure per il liberalismo riflettere e rafforzarsi su un nodo fondamentale della propria natura: il rifiuto del monismo e l’accettazione senza riserve del plurale. Prendendo un verso del poeta greco Archiloco – «La volpe sa molte cose, ma il riccio ne sa una grande» – Berlin ne fa, come si sa, il titolo di un suo saggio famoso, nel quale la preferenza dell’autore va, dichiaratamente, alla volpe. Ma tutto il liberalismo novecentesco è volpe. È, anche in questo caso, faticosamente, contraddittoriamente, mai indubbiamente plurale. Senza rischiare, o almeno senza troppo rischiare il relativismo, la dimissione intellettuale e la irresponsabilità etica che lacerano il XX secolo e consegnano a quello successivo le contraddizioni visibili nelle vicende di questi giorni: dagli attentati di Parigi agli accordi con Erdogan, dai distinguo che accompagnano la strage di Charlie Hebdo ai misteri che circondano la nascita e la vita di Daesh.
Ad essi, ancora non sapendo, si rivolge questa altra preziosa riflessione, di Popper stavolta, che il libro di Ocone ci regala: «Se estendiamo e illimitata tolleranza anche a coloro che sono intolleranti, se non siamo disposti a difendere una società tollerante contro l’attacco degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti, e la tolleranza con essi»
di Luigi Mascilli Migliorini
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