Il “Grande Libro” di Saverio Strati, l’ultimo, l’ha pubblicato l’editore Rubbettino. Il manoscritto che porta la data 28 febbraio 1991, era rimasto chiuso nel cassetto dello studio di Scandicci dove il romanziere è vissuto a lungo, ed è morto il 9 aprile 2014. Lo immaginiamo il grande narratore accarezzare, ritoccare, riscrivere, sfiorare le pagine della sua ultima fatica letteraria: “Tutta una vita” e farsene ragione del gran rifiuto ingrato, scortese dell’editore Mondadori che aveva stampato fino al allora tutti i suoi precedenti romanzi. Sicuramente era deluso, si sentiva tradito da quel “visto si stampi” mai arrivato. Magari, inconsciamente l’aveva messo nel conto e perciò un cruccio vero e proprio non se l’era fatto. Aveva tanto orgoglio, Strati, per potersi rammaricare più di tanto, e aveva visto la piega che la letteratura italiana stava prendendo. Il mondo letterario cambiava velocemente e prevaleva in molti editori, non tutti per carità, l’aspetto commerciale: dominava la risonanza mediatica, sulla scrittura e sulle storie. La sua signorilità, la sua aristocrazia paesana, la testardaggine calabrese non gli avrebbero permesso di prendersela più di tanto.
Dopotutto, “Tutta una vita”, era una sorta di testamento spirituale e letterario: riguardava più il dopo e meno il presente; il dopo di un mondo smarrito, senza bussola. I romanzi li aveva già scritti e pubblicati con successo e chi era Strati, almeno nella cerchia ristretta dei grandi letterati, si sapeva. I suoi libri avevano raccontato storie di luoghi e di uomini appartati, di un mondo che esisteva ma che non era inserito nel mondo. Come riconosceva Geno Pampaloni che curò il primo “Tibi e Tàscia” mondadoriano e ne scrisse l’introduzione, Strati era lo scrittore che «con grande vigore narrativo è riuscito a porsi sulla frontiera inquietante tra il mondo moderno ingiusto ma necessario e il vecchio mondo del sud, remoto e struggente nella sua sfortunata saggezza».
Pampaloni, tra i maggiori critici letterari del secolo scorso, Strati invece lo descriveva così: «Sembra portare sulla propria persona la vita dei padri. Il passato, soprattutto, il dolore del passato, la tradizione della sua terra, i secoli di miseria e di silenzio, la pazienza contadina e artigiana, il pudore dei sentimenti, e persino l’antica lentezza, con cui il tempo trascorre nei vecchi paesi, sembra portarseli addosso, come una consanguinea presenza, una compagnia».
Lui, Saverio Strati, si giudicava in questo modo: «Sono uno che vive la vita che vuole vivere. Sono un uomo libero, non mi sono fatto schiavizzare da mondanità, presenzialismo o da relazioni di cui si pensa non si possa fare a meno per avere successo, oppure attrarre dalla pubblicità. Vivo, come ho scelto di vivere, quindi mi sento soddisfatto».
Non poteva dunque dispiacersi di essere rimasto scrittore libero con “Tutta una vita”, correndo il rischio calcolato del rifiuto pur di non venir meno alla sua libertà di uomo e di scrittore. Rubbettino, auspice Palma Comandè, scrittrice di spessore, e nipote di Strati, ha reso giustizia e onore al grande narratore di Sant’Agata del Bianco, pubblicando “Tutta una vita”, libro che vede la luce con prefazione di Vito Teti e la postfazione di Pasquale Tuscano (pagine 331, euro 19). E il pozzo grande il libro “Tutta una vita” in cui lo scrittore ha scaricato talento narrativo, cultura filosofica, sapienza operaia e contadina, conoscenza, agire morale: il pozzo a cui adesso il lettore può attingere, per comprendere la storia italiana recente che si trascina quell’anomalia, unica nell’Occidente, di un Nord e un Sud divisi e distanti. Pino, il personaggio principale del libro, è l’io narrante/l’io narrato che “rilegge” la sua vita di italiano pendolare, tra nord e sud: Messina, Firenze, Milano, Roma e la Calabria delle radici. Le donne, i rapporti turbolenti, i progetti, le ambizioni, l’esistenza, le euforie, i raffronti tra vita del Sud e vita del Nord sono il file rouge di una lunga meditazione che impatta con lo smarrimento di un tempo che suggerisce di tornare all’essenziale dopo aver sperimentato i falsi appagamenti della modernità, a danno della dimensione contemplativa della vita. C’è tutto il meglio di Strati nel libro che ha atteso trent’anni per vedere la luce; è il libro con cui il muratore studente laureato grande narratore, si è costruito l’anima trasmettendo al lettore il senso della storia e l’orientamento per conquistare la libertà. Commette sbaglio chi pensa che sia meridionale, o più specificatamente calabrese, la letteratura di Strati, scrittore che, con Alvaro, a fianco di Alvaro per i temi affrontati, le storie narrate, dimostra di essere uno dei più grandi scrittori del Novecento. Definiremmo libri di letteratura periferica i romanzi di Luis Sepulveda o di Gabriel Garcia Màrquez? Certamente no, perché raccontano vite, esistenze, sentimenti, come Strati che è scrittore di dignità europea, e a cui, come dice Vito Teti, nella prefazione, va riconosciuto il legame con la tradizione russa e mitteleuropea. “Tutta una vita” è un’opera lucida e premonitrice che ci restituisce il senso della nostra storia nazionale più recente. Strati è tornato.