Gentile Gabriella, ho letto Il garbuglio di Garlasco.
So che chi parla di un libro dovrebbe concentrarsi appunto sul libro ma non rispetterò la regola e parlerò soprattutto di Lei, dell’Autrice.
Ci siamo conosciuti su LinkedIn, abbiamo stabilito un contatto e constatato di avere interessi civili e letterari piuttosto simili.
È stato naturale provare curiosità quando ho saputo che aveva dato alle stampe Il Garbuglio.
Letto immediatamente e finito in poco tempo ma poi ci ho pensato a lungo.
La prima associazione a venirmi in mente è con Jean-Baptiste Adamsberg.
È lo svagato ma intuitivo commissario protagonista di vari romanzi di Fred Vargas che gli ha attribuito la natura di spalatore di nuvole o, se preferisce, di dissipatore di ombre.
Chiunque scriva di delitti e di processi corre sempre un grosso rischio, quello di accontentarsi di seguire un’onda già formatasi e di accettare le nuvole e le ombre come fatti scontati e immodificabili.
Lei, Gabriella, ha saputo evitarlo e ha fatto tutto quello che era possibile e giusto per spalare almeno alcune delle nubi che continuano ad aleggiare sul processo ad Alberto Stasi.
Lo ha fatto come farebbe qualunque serio ricercatore: leggendo integralmente gli atti del procedimento penale, così facendo sua la materia prima della ricerca e acquisendo piena consapevolezza del percorso faticoso e altalenante a conclusione del quale Stasi è stato giudicato responsabile dell’omicidio di Chiara Poggi e condannato in via definitiva alla pena di sedici anni di reclusione che sta scontando.
Ma ha saputo anche uscire dagli angusti confini del processo e percorrere le tante strade che si offrono a una mente curiosa.
Ha attinto ulteriori conoscenze dalle fonti aperte messe a disposizione dal web e dalla stampa.
Non si è ancora accontentata e ha fatto dell’altro, rivolgendosi ad alcuni dei più significativi protagonisti della storia. Gli ha fatto domande, in qualche modo li ha provocati e ha ottenuto risposte significative.
Tra questi protagonisti – e qui Il garbuglio spinge la narrativa legal nazionale verso mete che sembravano pressoché irraggiungibili – ci sono alcuni dei magistrati che hanno concorso a definire la vicenda di Garlasco con le loro decisioni.
Mentre leggevo il flusso dei loro pensieri ho pensato che ci fosse una sua intermediazione letteraria, che stesse dando corpo a ciò che lei stessa riteneva plausibile potessero aver pensato mentre provavano a decifrare una storia così complessa. Mi sbagliavo e me lo ha fatto notare: non c’è una parola che non venga direttamente dalla voce degli intervistati.
È una caratteristica degna di nota: è assai insolito che un giudice, uno che condanna o assolve, renda palese ciò che lo ha spinto davvero verso un certo verdetto; è altrettanto raro, direi ai limiti dell’impossibilità, che un giudice accetti il confronto con se stesso e il malessere o almeno il disagio di ciò che potrebbe venirne e sappia leggere così tanto dentro sé da poter cogliere il proprio pensiero ultimo, quello del sì o del no.
D’altro canto, anche chi giudica è umano, talvolta troppo umano, e potrebbe anche essere vera quella tesi che “la giustizia è ciò che il giudice ha mangiato a colazione” (Jerome Franck, giudice federale statunitense).
Lei ha compreso, Gabriella, che le spinte interiori e il sistema di credenze di chi amministra giustizia sono importanti almeno quanto le conoscenze tecniche e le riconosco il merito di avere esplorato questi altopiani che, a dispetto della loro centralità, sono praticamente sconosciuti.
Ha un altro grande merito: ha saputo riconoscere come elemento cruciale della storia di Garlasco le cosiddette indagini tecniche, le loro metodologie, le conoscenze scientifiche di cui sono o dovrebbero essere frutto.
Ha messo sapientemente in luce la difficoltà del rapporto tra scienza e giudizio e le pericolosissime complicazioni che seguono alla junk science, alle forzature metodologiche, alle convinzioni personali e ai pregiudizi che precedono gli accertamenti tecnici e pretendono di condizionarne l’esito, magari con l’aiuto dei moderni Cagliostro e Dulcamara sempre pronti ad offrire i loro servigi a chi glieli chieda.
Gentile Gabriella, lei ha raccontato assai bene la storia di Garlasco e ha aperto uno squarcio di luce su un giudizio sicuramente emblematico delle difficoltà di questa assai lunga stagione della giustizia penale: la mediaticità che irrompe nelle aule dei tribunali, crea aspettative e condiziona e altera la fisiologia procedimentale; l’abbandono progressivo del dubbio razionale a favore dell’istinto punitivo; la radicalizzazione dei ruoli quasi che, per dirne una, l’accusatore pubblico possa inverare e sublimare la sua funzione solo attraverso la condanna, quale che sia la verità.
Ha raccontato questo e molto altro.
Spero che il suo lavoro abbia la fortuna che merita e ne consiglio la lettura con convinzione.
Ritengo però necessaria un’avvertenza: chi la leggerà, Gabriella, proverà un piacere inquieto, se queste due parole possono stare insieme. Avrà la sensazione di entrare dentro una storia che è essenziale conoscere ma ne ricaverà l’inquietante consapevolezza che ogni processo penale ha la sua stella e non è affatto detto che coincida con la verità.