Recensione del libro “Il filo delle Libertà” di Antonio Pileggi (Rubbettino Editore, 2021)
Due anni e qualche mese dopo il libro “Pietre” di cui feci con piacere la prefazione, Antonio Pileggi ha pubblicato un secondo libro, “Il filo delle libertà”, sempre edito da Rubbettino , di formato inferiore, di una novantina di pagine, che riproduce tre suoi scritti sull’intreccio tra politica e potere in materia di libertà di insegnamento nella scuola, di libertà religiosa e di libertà politiche. E’ un nuovo contributo significativo alla sua concezione liberale di fondo, che in realtà riguarda tutti. Essere liberale in politica significa curare giorno per giorno le regole della convivenza al fine di renderla il più possibile aperta alle interrelazioni tra i cittadini e alle loro scelte.
Nell’introduzione l’autore sintetizza la funzione e il funzionamento delle libertà. Le quali sono il principio che il liberale mette prima di tutto al fine di organizzare il convivere tra cittadini diversi. Il punto è che le tre libertà di cui tratta questo libro, necessitano sempre di manutenzione e di vigilanza , perché le libertà non si conquistano mai in modo definitivo. Da qui, la crisi politico sociale dell’Italia. E’ frutto dell’insufficiente presidio delle libertà dell’individuo di fronte al potere arbitrario dei potentati di ogni genere e di ogni generazione. Un’insufficienza di varia origine. Le formazioni politiche non improntate al metodo democratico e rimpiazzate da partiti personali e padronali, le leggi elettorali riconosciute incostituzionali, la violazione sistematica dell’obbligo costituzionale per chi esercita funzioni pubbliche di adempierle con disciplina ed onore.
Il primo scritto riportato approfondisce la funzione della scuola e della cultura quale cuore pulsante di un paese e del suo livello di libertà. La scuola ha il compito di trasmettere la cultura autonoma che alimenta la ricerca della conoscenza e lo spirito critico di ognuno. Per sottolineare tale ruolo, l’Autore richiama la Costituzione e le Carte internazionali che prescrivono di mettere al centro della scuola lo studente, e in specie il fanciullo, da farlo divenire capace di affrontare i problemi della vita. Per questo motivo in Italia, intorno al duemila, venne pure introdotta nel Ministero una Direzione per lo Studente, rimasta però al palo per carenza di risorse.
L’anima della scuola è la libertà d’insegnamento, che appartiene non ai soli docenti bensì all’intera scuola, purché realizzi quel dialogo educativo che è condizione di sviluppo dello spirito critico degli studenti e il vero interesse pubblico. La libertà di insegnamento è il risultato della collaborazione di fatto delle svariate professionalità che gravitano nel mondo della scuola, comprese quelle delle Regioni e degli Enti Locali. E che dovrebbe far conservare per i docenti una considerazione purtroppo assai affievolitasi nell’ultimo trentennio, anche a seguito del minor peso attribuito alla scuola.
La libertà di insegnamento implica l’evitare di maneggiare l’intero percorso professionale dei docenti – a partire dall’assumerli, dal retribuirli, dall’aggiornarli – usando in modo arbitrario il potere e trascurando le regole certe e i metodi trasparenti. Ciò perché la libertà di insegnamento svolge il suo fondamentale ruolo mediante il libero rapporto dello studente con il docente e non potrebbe farlo con gli abusi e senza regole certe, che seminerebbero incertezze culturali e disattenzione per la ricerca della conoscenza.
Tutte queste specificità dell’insegnamento, spiegano l’importanza dell’annotazione che fa l’autore. La scuola non può essere considerata alla stregua di un’azienda o di una struttura sottoposta ad una catena di comando oppure venir frantumata da un’autonomia regionale differenziata, che di fatto rimette in discussione i meccanismi della libertà d’insegnamento. E neppure essere sottoposta alla politica dei tagli economici inaugurata venti anni fa, che ha lasciato in coda la ricerca educativa e il problema dell’affollamento delle classi, impoverendo la scuola già solo con questo. Il Covid19 ha posto ancor più in evidenza i limiti della scuola, con l’indurre la didattica a distanza intesa come emergenza. Che non è il male assoluto ma non può essere ridotta ad occasione per piazzare svariati pacchetti informatici inadeguati alla didattica. Per di più non ponendosi la questione essenziale delle numerose famiglie prive di computer per le quali sorge ineludibile la questione einaudiana dell’uguaglianza dei punti di partenza.
Il secondo scritto riportato affronta la questione della libertà religiosa nella convivenza, vale a dire l’importanza del principio di separazione tra Stato e Chiesa introdotto da Cavour. Nel pubblicarne i discorsi nel centenario della Breccia di Porta Pia, Valitutti scrisse che allora ebbe inizio una nuova fase tra i due Enti che è tuttora aperta. Esatto. Cavour indicò la strada non tanto del superamento del temporalismo da parte della Chiesa (che è sempre un affare interno della religione), quanto della separazione di ruolo tra Stato e Chiesa sul terreno del normare i rapporti fra i cittadini. E la questione resterà aperta – anche se il Concilio Vaticano II ha indotto il Vaticano a compiere importanti passi avanti – fino a che la stessa Chiesa non ammetterà che la libertà di manifestare la religione in pubblico, non è il diritto per essa di partecipare al decidere quali norme scegliere per le istituzioni del convivere e per la cura del mondo. Il motivo di ciò è che quella piena libertà pubblica di religione non cambia il carattere privato della religiosità individuale, che essenzialmente riguarda il vasto mondo sconosciuto e non le relazioni civili.
L’autore fa una considerazione significativa. La valutazione sul bene e sul male non può essere un atto di fede. La Chiesa ne prende appunto atto, con la sua tempistica. Una riprova significativa è che, poco dopo l’uscita de “Il filo delle libertà” , un Motu Proprio di Francesco ha tolto ai cardinali il privilegio di essere processati solo da altri cardinali e non dal Tribunale ordinario del Vaticano. Un atto nello stile di Francesco, che applica la dottrina costruendo ponti. Cosa che non arriva a riconoscere il funzionamento del mondo esterno, ma che lo riprende cautamente nella sostanza. In questo senso il problema separatista tra Stato e Chiesa è tuttora aperto, come scrisse Valitutti.
Il terzo scritto riportato tratta del liberalismo come organizzazione. Ed inizia con due citazioni, di Einstein e di Stuart Mill, sullo scopo della scuola. Concordano nell’affermare che l’obiettivo è educare, così da far maturare individui che agiscano e pensino indipendentemente. Perché la libertà non si può mai applicare ad una società fatta di uomini che non abbiano ancora imparato a migliorarsi attraverso una discussione libera e alla pari. Ne consegue che vanno formati cittadini che non siano militanti bensì partecipanti alla politica con metodo democratico, cioè indirizzato a conoscere, discutere e deliberare sulle osservazioni della realtà interpretate senza pregiudizi teorici. E’ il diritto chiave della convivenza sancito dall’art.49 della Costituzione. L’associarsi liberamente nei partiti e concorrere a determinare la politica con metodo democratico.
A questo punto, l’autore fa un sintetico elenco di sette anomalie attuali che affliggono la politica in Italia. Il più grosso partito costituito da chi si astiene dal voto oppure sostiene partiti non liberali; la tendenza a considerare il fine dell’attività politica l’occupazione del potere; i partiti personali o padronali; l’esistenza del M5S che ha raccolto notevoli consensi per reazione alla non credibilità altrui e che è organizzato mediante una piattaforma informatica per nulla trasparente da esportare nella società al posto della democrazia rappresentativa; l’esistenza del PD che, unico al mondo, usa le primarie selvagge per far eleggere il proprio segretario anche dai cittadini non iscritti; l’esistenza di leggi elettorali illiberali e perfino incostituzionali; la tendenza a demolire quattro prodotti della cultura liberale, l’unità italiana, la libertà dell’individuo, la centralità del Parlamento, la divisione dei poteri.
Tutte queste anomalie sostanziano una crisi convergente dei partiti, delle istituzioni e della rappresentanza. Questa crisi in pratica esprime la voglia di appropriazione di tipo feudale delle istituzioni, reclamata anche con lo slogan della democrazia decidente e con la ricerca di dar rilievo prioritario all’uomo solo al comando, sia il Sindaco in Comune, il governatore in Regione o il Premier assoluto a Roma. A quella voglia si accompagna, nell’ultimo quarto di secolo, l’affievolirsi della normativa concernente il sistema dei controlli sulla gestione amministrativa e politica della cosa pubblica ad ogni livello. Che va di pari passo all’estendersi del conferire onerose consulenze ad estranei alla Pubblica Amministrazione e del nominare i vertici di quest’ultima a piacimento, mettendo in forse i principi del buon andamento e dell’imparzialità al servizio esclusivo della Nazione.
L’autore tratteggia con rapide citazioni di parecchi articoli della Costituzione le chiare ed incisive indicazioni sull’importanza della partecipazione dei cittadini alla gestione della cosa pubblica e dei partiti, attraverso l’utilizzo del metodo democratico. Sono indicazioni che delineano sistemi ben diversi dai partiti personali o padronali, ma anche dalla partecipazione limitata agli aspetti economici e ancor più a quella di assistere senza scegliere. Nella quotidianità, tutti questi modi di agire politico sono peraltro più enunciati che davvero praticati. Perfino quando su punti specifici – ad esempio il finanziamento dei partiti – è stata varata una legge apposita, che ne “Il filo delle libertà” viene esaminata al volo per constatare che i suoi contenuti sono scarsamente osservati per la parte economica normata e assai generici e non cogenti per la parte inerente l’intervento attivo dei cittadini.
Nella conclusione, l’autore ricorda che l’azione politica non è la comunicazione del capo. In un partito liberale non dovrebbero esistere una catena di comando e atti di imperio. Un partito liberale deve essere capace di pensare ed agire dal basso verso l’alto della propria rappresentanza. Utilizzando la comunicazione interattiva foriera di crescita della partecipazione democratica, ma guardandosi bene dai pericoli di manipolazione connaturati all’uso della rete, per struttura in mano a pochi. L’idea forza dovrebbe prevedere un partito aperto e non chiuso in un recinto di tesserati.
Con questo libro Pileggi richiama l’attenzione, con efficacia, sul fatto che la politica deve incessantemente riferirsi al cittadino, nella concretezza delle esigenze di vita e delle iniziative da lui espresse. E che, per poterlo fare in modo costruttivo, deve iniziare dal curare a fondo gli aspetti cornice del convivere che sono trattati ne “Il filo delle libertà”. E’ un libro da leggere perché illustra questioni su cui è opportuno riflettano spesso i cittadini e necessariamente quelli che intendono comportarsi da liberali.