dal Secolo d’Italia del 31 Ottobre
«Non faccio un film per dibattere tesi o sostenere teorie. Faccio un film alla stessa maniera in cui vivo un sogno». A vent’anni dalla morte di Federico Fellini le celebrazioni per il regista più celebre e celebrato della storia d’Italia hanno eluso i discorsi sulla sua collocazione politica. Quando tutti i suoi colleghi cercavano un “messaggio” ideologico, gramsciano o marxista, Fellini è nel cinema quello che ha rappresentato Lucio Battisti nella musica leggera. Il cantautore di Poggio Bustone ai giovani che gli contestavano il fatto che i suoi brani non fossero “impegnati” rispondeva a brutto muso: «Io scrivo canzoni, l’unica risposta che voi del pubblico mi dovete dare è: vi emozionano o no?». Il regista riminese con la mitezza sorniona che lo contraddistingueva dribblava la questione.
Ma per capire la collocazione andrebbe ripreso il saggio di Andrea Minuz, Viaggio al termine dell’Italia. Fellini politico (Rubbettino, pagg. 248, euro 16). Il voto? Mai al Pci. Ufficialmente aveva detto di avere votato: nel 1976 aveva dato retta a Indro Montanelli, che aveva consigliato a chi non voleva i comunisti al governo di votare Dc. Negli altri anni, la sua collocazione era oscillata tra il Pri di Ugo La Malfa e il Psi di Bettino Craxi. Ma i rapporti umani più diretti erano stati con Giulio Andreotti e Franco Evangelisti. Agli atti resta un fitto epistolario tra il regista e il senatore a vita, dove i due si danno del tu. Inutilmente Andreotti avrebbe tentato di coinvolgerlo in iniziative pubbliche, ma Fellini ha sempre rifiutato. L’unico intervento in una manifestazione pubblica, la partecipazione al picchetto d’onore ai funerali di Enrico Berlinguer.
Sornione e impolitico, eppure, a ricordare il film più politico di Fellini è stato in tempi recenti Papa Francesco, nell’intervista a Civiltà cattolica in cui lo ha citato tra i suoi preferiti con La strada. Si tratta di Prova d’orchestra. Basterebbe ricordare le reazioni del mondo politico e degli intellettuali a quella pellicola che, usando la metafora di un’orchestra e del suo direttore, realizza un meraviglioso apologo sul potere e sull’ordine sociale. Il film, uscito nel 1979 nel pieno degli anni di piombo, imbarazzò la classe politica e fu tacciato di incitare all’autoritarismo. Un apologo sull’Italia paralizzata, incapace di decidere, ostaggio dei sindacati e degli scioperi. L’allora presidente Sandro Pertini difese d’ufficio il film cercando di collocarlo in una situazione non soltanto italiana. Chi non la prese affatto bene fu Pietro Ingrao, allora presidente della Camera. L’esponente del Pci parlò di un film che invitava alla «restaurazione, un richiamo all’ordine». Un altro esponente comunista, Antonello Trombadori, fu molto più schietto e definì l’opera di Fellini «una sacrosanta risposta ai deliri del Sessantotto». Chi prese nettamente le distanze fu il presidente della Rai Paolo Grassi: «Non sono per l’autorità, sono per l’ordine». La recensione più onesta fu quella di Lotta Continua: «Se ne esce sconcertati e si resta a lungo inseguiti dal pensiero: ma sono proprio io quello? O meglio siamo proprio noi?». Più di trent’anni dopo si può dire. Sì, ce l’aveva proprio con loro.
di Franco Bianchini
Clicca qui per acquistare il volume al 15% di sconto
Altre Rassegne
- Robinson (La Repubblica) 2019.12.14
Felliniani senza Fellini
di Filippo Ceccarelli - L'Eco di Bergamo 2014.01.07
Quella strana amicizia con Giulio Andreotti
di Andrea Minuz - Secolo d'Italia 2013.11.19
Il Fellini che non vi raccontano: votava Dc, rifiutava il cinema impegnato ed era contro il ’68
di Franco Bianchini - Giornale di Brescia 2013.07.08
Andrea Minuz sulle nobili tracce del Fellini «politico»